Sulla quiete monastica 

 

 

 

Sulla quiete monastica
Fuge, tace, quiesce

Tre testi fondamentali degli Statuti Certosini

Il triplice comando dato dal Signore al monaco Arsenio, padre del deserto, nel suo celebre apoftegma: “Fuge, tace, quiesce!” ci porta a considerare la quiete monastica come cammino verso il mistero dell’incontro con lo Spirito Santo. Esaminiamo innanzitutto alcuni testi degli Statuti Certosini.

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Il profeta dice: “Siede solitario ed in silenzio per poter elevarsi sopra di sé”, indicando così quasi tutto ciò che vi è di meglio nella nostra vocazione: la quiete e la solitudine, il silenzio e il desiderio dei beni celesti. (St 2.6)

Questo primo testo, attraverso una citazione di Lam 3,28 (nella versione della Vulgata), riprende sostanzialmente i tre precetti, indicandoli come l’essenza stessa della nostra vocazione, collegandoli infine all’aspirazione all’incontro con Dio che è la loro vera ragione di essere.

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L'anima del monaco sia dunque nella solitudine come un lago tranquillo le cui acque, scaturendo dalla purissima fonte dello spirito e non essendo agitate dall’ascolto di nessun rumore venuto dall’esterno, riflettano, quale nitido specchio, la sola immagine di Cristo. (St 13.15)

Anche questo secondo testo fa riferimento alle tre dimensioni della solitudine, del silenzio e della quiete, rappresentata qui come uno specchio d’acqua che solo quando è immobile può riflettere il volto di Cristo. Qualsiasi turbamento altera in noi questa immagine, che è il frutto della comunione con lo Spirito Santo.

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Ma non può entrare in questa quiete, se non dopo essersi cimentato nello sforzo di una dura lotta, sia mediante le austerità nelle quali persiste per la familiarità con la Croce, sia mediante quelle visite con le quali il Signore lo avrà provato come oro nel crogiolo. (St 3.2)

Il terzo testo è il più importante perché ci indica la via attraverso cui l’esperienza monastica conduce alla quiete, si tratta di uno sforzo di una dura lotta. E questa lotta si gioca su due fronti: da una parte le austerità proprie della nostra vita che servono ad educare l’uomo vecchio per metterlo in condizione di pervenire alla vera quiete; dall’altra le prove che non cessano di tormentare il monaco, soprattutto all’inizio, sia esternamente che interiormente (preoccupazioni, difficoltà nelle relazioni, tristezza, tentazioni, ecc.).

È molto importante che i nostri Statuti definiscano “visite del Signore” quelle prove che tutti invece considereremmo un fatto negativo e quindi da evitare. Il testo anzi ci dice che è proprio attraverso queste prove che potremo pervenire alla vera quiete, infatti coloro che entrano in Certosa si trovano subito immersi in un’atmosfera di quiete e di pace interiore diversa e migliore da quella che conoscevano prima. Ma non si tratta della vera quiete, poiché alle prime difficoltà il novizio piomba subito nell’inquietudine e nell’agitazione (forse peggiore di quelle che ha sperimentato prima). Sarà proprio il graduale superamento di tutti questi necessari momenti di prova che lo educherà alla vera quiete ed alla pace del cuore.

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Tre immagini monastiche della quiete

Non è possibile dare una definizione esauriente del concetto di quiete, i padri del deserto ci consegnano piuttosto alcune immagini dalle quali possiamo trarre indicazioni su questa dimensione fondamentale della vita monastica:

Apàtheia

I Padri della Chiesa, che hanno influenzato il primo monachesimo, traevano l’idea di quiete dalla filosofia greca, per la quale la questione più importante era il raggiungimento della felicità. Tale raggiungimento della felicità non consiste nel possesso di beni esterni, ma in uno stato di pace armonica ed imperturbabile; e la via che conduce a questa tranquillità interiore passa per un rapporto corretto con gli affetti che agitano l’uomo.

Evagrio Pontico che segue questi primi padri (Clemente di Alessandria, Origene) afferma che il presupposto dell’unione mistica con Dio e della contemplazione passa dall’apàtheia (impassibilità). Ma sarebbe veramente sbagliato pensare che l’apàtheia consista nella scomparsa delle passioni o dei turbamenti che affliggono l’uomo. Per Evagrio l’apàtheia è uno stato di pace interiore che non viene più disturbata dagli affetti che pur rimangono nell’uomo. Il monaco deve quindi liberarsi dal suo legame con le passioni (o pensieri: loghismòi) in modo che non lo scuotano più, anzi il cammino monastico gli insegnerà lentamente che la forza insita nelle passioni può essere messa al servizio del suo rapporto con Dio, sfruttando così ciò che gli sembrava un ostacolo e trasformandolo in energia.

Purezza di cuore

Giovanni Cassiano, invece di apàtheia preferisce parlare di purezza di cuore. Si tratta di una condizione in cui il monaco, liberandosi da ogni egoismo, doppiezza di vedute, proiezioni sull’altro e giudizi, può aprire completamente il proprio cuore a Dio nell’amore. In fin dei conti per Cassiano la purezza di cuore è l’amore puro e genuino di Dio e del prossimo; infatti, chi ama veramente non ha un cuore doppio, non mentisce agli altri (e quindi allo Spirito Santo) e non ha nulla da nascondere. Questa semplicità ed apertura del cuore costituisce ciò che Cassiano intende per “purezza”, indicandola come l’immagine stessa della quiete monastica.

Unificazione

Questo termine non si trova nella tradizione monastica antica, ma è insito nel termine stesso di “monaco” infatti la più probabile etimologia fa derivare questa parola dal greco monos che vuol dire uno, nel senso di “unificato”, cioè non frantumato, non disperso in mille questioni preoccupandosi di sé stesso e dell’idea che si è fatto di sé. Non si condanna qui la molteplicità di attività, che anche un monaco può avere, ma l’atteggiamento di preoccupazione ansiosa nei confronti di esse e soprattutto delle aspettative degli altri, perché ciò nasce sempre da una mancanza di umiltà che genera inquietudine.

Abba Poemen chiese all’eremita Giuseppe: “Come faccio a diventare monaco?” Quegli rispose: “Trova la pace del tuo cuore”. “Ma come faccio a trovare la pace?” chiese di nuovo Poemen, e Giuseppe rispose:”Se vuoi trovare pace, domandati dinanzi ad ogni situazione: E io, chi sono io? E non giudicare nessuno.”

Questo apoftegma ci indica le due strade principali della quiete come unificazione dell’io:

La prima passa attraverso l’umiltà, che vuol dire liberarsi delle immagini errate di sé e non mettere sempre al centro il proprio io ed i suoi problemi, perché questo in solitudine genererà solo inquietudine. Se impariamo a compiere il nostro dovere “come servi inutili” e accettiamo anche ogni contrarietà come “visita del Signore” avremo raggiunto la vera pace dell’umiltà.

Bisogna però anche notare che la questione proposta da Giuseppe a Poemen “E io, chi sono io?”, se in un primo tempo serve ad abbattere tutte le false costruzioni del mio io e dei suoi problemi, dall’altra ci indica la via per trovare in noi quel mistero che ci abita. Quel volto e quell’immagine che Dio aveva di noi quando ci ha creati.

E io, chi sono io? “Un lago tranquillo che riflette la sola immagine di Cristo”.

 

Alcuni testi biblici

La tradizione monastica oltre ad averci lasciato delle immagini che ci descrivono la quiete, ci ha anche tramandato un modo di leggere la S. Scrittura per trovarvi le indicazioni metodologiche sull’ottenimento della pace del cuore, che è il dono principale del Signore Risorto: “Pace a voi!” (Lc 24,36, Gv 20,19.21; 20,26), dono che era stato promesso in modo esplicito nel discorso di addio prima della passione: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (Gv, 14,27).

 

Quiete è “cercare il Regno di Dio” (Mt 6,25-34)

Il termine più ricorrente in questo brano è il verbo “affannarsi”, che sempre presentato come qualcosa da evitare; contrapposto ad esso l’invito di 6,33 “cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia”.

Una lettura superficiale potrebbe farci intendere l’invito di Gesù come una contrapposizione di valori: “non preoccupatevi di ciò che vale poco (il vestito, il cibo ecc.), preoccupatevi invece del Regno di Dio”. Questa lettura non tiene conto di due termini importanti usati da Gesù: il verbo “affannarsi”, che ha un’accezione decisamente caratteristica diversa dal preoccuparsi, e l’avverbio “prima”, che accompagna l’invito a cercare il regno.

È comprensibile che l’uomo (ed anche il monaco) debba preoccuparsi della sua vita e del suo futuro, ma se lo fa continuando a girare intorno a sé stesso e alla sua angoscia, tutta la sua vita sarà divorata dall’affanno che sempre più gli ottenebrerà lo spirito, impedendogli un sereno rapporto con Dio. L’invito di Gesù riguarda quindi il modo di preoccuparsi di quello che dobbiamo fare: tutto va fatto senza affannarci, cioè senza mettere sempre in primo piano il nostro io con le sue angosce.

Ma come possiamo liberarci da questa tendenza innata a fare di ogni preoccupazione un auto-affannarci?

L’invito di Gesù a cercare il Regno di Dio e la sua giustizia viene letto, come sempre nella tradizione monastica, da un punto di vista interiore. Non dimentichiamo che questa pericope del discorso della montagna s’inserisce in un punto molto importante per la vita spirituale. Dopo aver dato i precetti sulla giustizia nel cap. 5, Gesù prosegue il discorso (cap. 6) spostando l’attenzione sulla vita interiore e sul rapporto diretto con Dio, e ci presenta innanzitutto i tre precetti fondamentali: elemosina, preghiera e digiuno, esortandoci a viverli in modo più autentico (non preoccupandoci soprattutto dell’apparire).

Ciò che accomuna tali esortazioni è il richiamo al “segreto”. “Il padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà” (cfr. 6,4.6.18). Dentro di noi c’è quindi uno spazio segreto dove abita Dio, dove Dio regna. È questo il “regno di Dio” che è dentro di noi. Se entreremo in contatto con questo luogo di silenzio, la nostra vita diventerà “giusta”, nel senso di “giustificata”, cioè “retta”, non centrata su una visione egoistica di me, ma basata su un autentico rapporto con Dio (è questa la “giustizia” cui si allude in questo brano). Allora farò l’esperienza di non dovermi più affliggere per soddisfare attese e pretese degli altri, infatti in questo spazio interiore non hanno accesso le aspettative degli uomini e i loro giudizi. In quest’intima stanza non potrà quindi nemmeno penetrare l’angoscia e ciò mi darà la vera libertà e la quiete.

Quindi Gesù ci vuol dire che la prima cosa importante nel preoccuparsi delle varie realtà cui siamo chiamati, è che innanzitutto Dio regni nel mio intimo, che egli colmi il mio cuore e lo “giustifichi” cioè lo renda giusto (possiamo anche dire “puro”) fin nel profondo. È questa la cosa che va cercata “per prima”, infatti, se troveremo il regno di Dio in ogni nostra realtà, non ci sarà più affanno nel preoccuparci per esse.

 

Quiete è “portare il giogo e farsi discepolo” (Mt 11,28-30)

Presentandosi come la Sapienza che invita al raggiungimento della pace (Sir 51,23-27, ma anche Ger 6,16) indicandone la via, Gesù chiama tutti coloro che sono “affaticati ed oppressi”. Chi sono costoro? Di quale fatica ed oppressione si tratta? Per tentare di rispondere si può rileggere la condanna di Caino (Gen 4,12): molti come Caino se ne vanno in giro inquieti, si affliggono senza che ne valga la pena, il loro lavoro non produce frutti. Anzi sono sempre agitati, e dalla loro stessa agitazione vengono oppressi. Una fatica senza fine, perché nasce da un’inquietudine profonda che deriva da un rapporto sbagliato con Dio.

Poiché l’origine dell’inquietudine è proprio un rapporto sbagliato con Dio, Gesù propone sé stesso come unica fonte di riposo e di quiete, ma la traduzione “vi ristorerò” non corrisponde esattamente al greco, che piuttosto bisognerebbe rendere con “vi farò riposare”. Il riposo che ci propone Gesù attraverso la sua persona è un riposo dal nostro inquieto affannarci che ci opprime, in lui verrà quindi spezzata (o interrotta, altro significato del verbo greco) la ragione stessa dell’inquietudine.

La via che Gesù ci indica è duplice: la prima consiste nel prendere su di noi il giogo di Gesù. Sembra paradossale che a chi è già oppresso, venga proposto di prendere un giogo, ma si tratta di quel giogo che legandoci a Dio nel profondo del cuore, ci libera da ogni schiavitù ed angoscia, da ogni dipendenza dalle realtà contingenti. Non bisogna dimenticare che il significato di “religione” deriva proprio da “giogo”, perché il verbo “religare” vuol dire anche “aggiogare”; in questo senso si può anche dire che i “religiosi” (in quanto scelgono di fare dei voti) si sono sottoposti a questo giogo. Ed in effetti, l’ubbidienza e la sottomissione alla regola sono state sempre indicate come la via monastica per il raggiungimento della serenità interiore e della quiete. Chi però percepisce questa via come un ulteriore peso capace di ucciderlo, è uno che in realtà non vuole scrollarsi di dosso il giogo ben più pesante ed opprimente del proprio io, con tutti i suoi affanni. Preferisce l’inquietudine di un rapporto sbagliato con Dio, piuttosto che rinunciare a sé stesso.

La seconda via sta nell’imparare. Dobbiamo imparare da Gesù che è mite ed umile; c’è un’amabilità ed un’umiltà che non conosciamo e che debbono trovare spazio nella nostra vita. Ma l’aspetto più importante dell’invito è quello che potrebbe sfuggirci: noi dobbiamo ancora imparare, cioè non possiamo affermare di conoscere cosa voglia dire essere miti ed umili. Dobbiamo metterci seriamente alla scuola del Cristo, ed in essa nessuno può essere maestro a sé stesso, anzi proprio il farsi maestro della propria via renderà impossibile l’apprendimento di queste due qualità che sono quelle fondamentali del discepolo.

Alla fine dell’esortazione Gesù ripete la promessa “troverete ristoro (lett. riposo) per le vostre anime”, che noi monaci leggiamo sempre in parallelo a Mc 6,31. Individuando nella solitudine vissuta nel Cristo, la via della vera quiete. La preghiera interiore del monaco è uno spazio interiore in cui siamo soli con Dio, in cui siamo tutt’uno: uno con Dio, uno con noi stessi, uno con la creazione. Siamo …“monaci”.

 

Quiete è: vivere nella fede e fuggire il peccato (Eb 3,7-19)

Dal v.3,7 fino a 4,11 l’autore della lettera agli Ebrei fa una lunga digressione sul riposo, partendo dalla citazione del salmo 94 (che cantiamo ogni notte come invitatorio) di cui vengono citati gli ultimi 4 versetti, con particolare riferimento all’ultimo: “non entreranno nel luogo del mio riposo”.

Dalla citazione traiamo innanzitutto indicazione sugli elementi che concretamente ci impediscono di entrare nel riposo:

1)      L’indurimento del cuore.(v. 8 “non indurite il cuore”). Chi è diventato “duro” nel suo cuore, chi brontola continuamente e si ribella alla vita che Dio gli ha assegnato, non troverà la via che è nel suo intimo, è staccato dal suo cuore: vive in superficie e nella scontentezza di se stesso, senza mai trovare pace.

2)      L’amarezza. (sempre nel v.8, leggiamo “nel giorno della tentazione”, ma questa traduzione non rende il testo greco della LXX da cui è tratta la citazione; là si legge letteralmente “nell’amarezza”). Chi è amareggiato è in costante ribellione contro sé e contro Dio. L’amarezza ribolle in lui e non consente al cuore di trovare riposo. Si ha quasi l’impressione che le vecchie ferite siano presenti adesso, come lo erano molti anni fa, e non concedano riposo e pace al cuore. Queste vecchie ferite lacerano l’anima e ricompaiono con accenti di amarezza in ogni occasione.

3)      L’andare fuori strada. (v.10 “non hanno conosciuto le mie vie”, v.12 “un cuore che si allontani dal Dio vivente”). Qui è evidente che si tratta dell’esperienza del peccato: una scelta deliberata contro la propria coscienza, un rifiuto a lasciarsi mettere in discussione da Dio. Chi pecca inganna se stesso, e questo ingannare se stessi indurisce il cuore rendendolo insensibile al mistero del momento presente. Le persone inquiete a causa del peccato hanno paura di immergersi nella consapevolezza della presenza di Dio “qui ed ora” e ciò impedisce loro di abitare il loro cuore con libertà e quindi di godere la pace e la quiete.

Successivamente il testo si interroga sul “quando” di questo riposo. L’immagine del riposo sabbatico è presente nel linguaggio biblico per indicare il riposo dell’aldilà, come premio per una vita retta, ma l’autore sceglie appositamente di cominciare l’inizio della citazione del salmo dalla parola “oggi” proprio per indicarci che da una parte non si tratta semplicemente di una rievocazione dell’ingresso nella terra promessa, e dall’altra parte non si parla solo dell’aldilà. “Finché dura quest’oggi” è l’invito a considerare la promessa del riposo preparato per noi, come un’occasione continuamente a nostra disposizione. Il riposo è già pronto, sta a noi renderci degni di potervi entrare.

Nel v. 12 si sintetizza nel “cuore perverso e senza fede” l’ostacolo ad entrare in tale riposo. Degli atteggiamenti che induriscono (v. 13) ne abbiamo già parlato. Rimane però l’elemento più importante per la lettera agli Ebrei: la fede.

Se il riposo è già pronto per noi, in esso possiamo prendere dimora persistendo nella fede. È questa la via principale che ci viene tracciata dalla lettera per dimorare nella quiete: pur in mezzo alle preoccupazioni ed alle difficoltà, il nostro cuore, mediante la fede si trova già in quel luogo di riposo e di pace dove abita Cristo. Spesso non ci accorgiamo che la ragione fondamentale delle nostre inquietudini e della durezza del cuore è la mancanza di fede.

Nei momenti di inquietudine ci lasciamo prendere facilmente dai pensieri che occupano la nostra mente e tentiamo di spiegarci con essi le ragioni di ciò che viviamo, ma se ci interrogassimo piuttosto su qual è la nostra relazione con Dio in quel momento, ci accorgeremmo facilmente che l’inquietudine nasce proprio dal venir meno dell’affidamento alla misericordia divina, cioè dal venir meno della fede, che innanzitutto è fiducia, cioè relazione intima, con Cristo (v. 14).

 

Elogio dell’inquietudine (il “cuore inquieto” in Sant’Agostino)

Nelle Confessioni Sant’Agostino osserva con precisione i moti del suo animo, la sua inquietudine, la sua irrequietezza. Per lui l’uomo è essenzialmente uno che desidera. Desidera il successo, la proprietà, aspira ad avere un amico, una persona che lo ami. Tuttavia questi desideri non sono altro che travestimenti dell’unico vero desiderio: l’uomo aspira essenzialmente a Dio, anche se non lo sa, o non lo vuole ammettere.

“Inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te, mio Dio”. Solo in Dio trova una vera patria, un amore assoluto, una sicurezza definitiva.

Secondo Agostino, quindi, ogni manifestazione di inquietudine e di desiderio da parte nostra, deve venire letta positivamente come un anelito a Dio. La molla che ci spinge a cercare e ad essere inquieti è soltanto l’ardente desiderio di Dio.

Se penso a ciò che mi muove nelle mie sfere più profonde, se vado alla ricerca di cose, di consolazioni affettive, di un’attività piena di soddisfazione, mi accorgerò subito che niente può soddisfare il mio ardente desiderio. Alla fine ciò che desidero ardentemente è soltanto Dio.

Quindi, soltanto se riconosciamo Dio come meta ultima del nostro anelito, giungiamo alla pace ed alla quiete del cuore. La persona che reprime o censura la reale identità del proprio desiderio, vivrà continuamente insoddisfatto e bisognoso di realizzazione (di sé o dei propri desideri); comprenderà certamente che c’è qualcosa che non va, ma tenderà sempre a risolvere il problema identificandolo con i propri bisogni o difficoltà del momento.

Per Sant’Agostino, invece, la via della tranquillità consiste anzi nel riprendere contatto con il nostro desiderio, anzi proprio col riaccenderlo, in modo da poterlo sostituire a tutte le nostre brame. Infatti, nell’anelito ardente che noi sperimentiamo, si trova un nucleo che sta al di là del mondo, che supera il mondo e che può riconciliarci con la nostra vita liberandoci dalle inquietudini illusorie che ci accompagnano e che non potranno mai essere soddisfatte.