Il canto nella vita del certosino 

 

 

Si conosce la vita dei monaci certosini soprattutto come una vita da reclusi, da eremiti totalmente separati dal mondo. Nella loro vita di solitudine e di silenzio, li si immagina essenzialmente in cella, dedicati alla preghiera e alla solitudine. Ma l’equilibrio della vita certosina sta proprio nel rilevante spazio di tempo che viene dedicato alla preghiera comunitaria e alla celebrazione liturgica.

Chi è ammesso ad assistere ad un Ufficio in Certosa viene spesso colto dall’atmosfera che se ne sprigiona. L’ascoltatore è come proiettato fuori dal tempo, in una dimensione che potrebbe appartenere al Medioevo, colpito dalla potenza del canto, dalla sua calma, dalla sua lentezza, dalla sua unità, dalla sua ieraticità, e da un sentimento di grande bellezza primitiva. Il canto non appare immediatamente come melodioso, ma è improntato ad una certa rudezza, sottolineato dal rumore degli stalli e dagli assiti che scricchiolano. Il canto certosino è sempre impressionante e commovente.

Per coloro che cantano l’Ufficio ogni giorno in Certosa, l’esperienza è diversa. Il lato sconosciuto e sorprendente è stato smorzato dalla monotonia dell’abitudine. L’Ufficio cantato non è più un’esperienza eccezionale vissuta in un luogo eccezionale, ma un’opera quotidiana. Col passare del tempo, la percezione si affina e i «difetti» del canto diventano sempre più evidenti. Il canto viene allora percepito come troppo lento o troppo veloce, sconnesso e privo di unità, secondo i vari punti di vista. I difetti degli altri, o i propri, danno fastidio. La patina dell’abitudine tende a far dimenticare l’immensa bellezza del canto. Talvolta, però, a chi è attento, sopraggiungono dei veri momenti di grazia, e il canto s’innalza, libero, semplice e bello. Non esprime più la preghiera, è preghiera.

 

Qual è il posto del canto nella vita dei monaci certosini?

I monaci certosini passano molto tempo a cantare in coro e in cella. Si ritrovano per cantare la Messa al Mattino, poi per cantare l’Ufficio dei Vespri alla fine della giornata, e di notte per il lungo Ufficio delle letture e delle Lodi. È l’attività comune che prende più tempo nella vita dei monaci.

L’Ordine Certosino insiste nel dare al canto e alla liturgia un posto essenziale nella vita del monaco. Si ha spesso la tendenza a pensare che la musica e il canto non sono che un abbellimento della liturgia, e servono solo ad esaltare lo splendore delle cerimonie. Ma non è questa la funzione attribuita al canto nella liturgia certosina. Non solo il canto gregoriano è inseparabile dalla liturgia – non ne è un ornamento – ma è considerato come uno strumento spirituale essenziale. Gli Statuti lo precisano così:

«Attraverso quel che cantiamo il nostro animo sia portato alla contemplazione delle realtà increate, giubilando a Dio, nostro creatore, con voce armoniosa.» (Statuti 52, 25)

Quando gli Statuti parlano di «realtà increate», si tratta di una perifrasi per designare Dio, poiché solo lui esiste da tutta l’eternità. Ora, la contemplazione di Dio è il fine ultimo della ricerca del monaco, che è di «vedere Dio faccia a faccia», come è detto di Mosè nella Bibbia. Gli Statuti affermano dunque precisamente che il canto può elevare lo spirito alla contemplazione di Dio, cioè a quanto di più alto ci si possa aspettare quaggiù.

Ci si potrebbe stupire nel leggere che il canto è capace di portare lo spirito a tali altezze. Quando si parla di contemplazione, si pensa innanzitutto all’ascesi, alla preghiera, e alla grazia di Dio. Nell’ascesi, l’anima e il corpo sono purificati per permettere loro l’incontro con Dio. Nella preghiera, si instaura un dialogo tra l’anima e Dio. Infine, la grazia di Dio ci concede di vederlo.

In che cosa il canto certosino può essere per il monaco un’ascesi, una preghiera e una grazia, al punto di permettergli di contemplare «Dio»?

 

Il canto come ascesi

Il novizio scopre la liturgia come una terra sconosciuta. Questo mondo musicale è talmente particolare che gli occorre del tempo per assimilarne tutti i dettagli e tutte le sottigliezze, attraverso un lavoro umile, paziente, perseverante.

Quali che siano le sue capacità musicali ed intellettuali, il monaco sarà sempre messo di fronte alle proprie ricchezze e alla proprie povertà. Riconoscendo i propri limiti, il monaco potrà crescere per mezzo del canto.

Un fratello, proveniente da un’origine molto umile e non che non sa leggere la musica, ha una voce molto calda, molto ben posta ed esatta. La musica scorre dal suo cuore senza che lui vi rifletta. Ma la sua croce sarà l’apprendimento della lettura delle note, che spesso sarà vissuta come una barriera insormontabile.

Un altro monaco, appartenente ad una famiglia di musicisti, e che possiede una cultura musicale, sa leggere le note facilmente, e acquisisce il repertorio senza difficoltà. Ma fa fatica a porre giustamente la sua voce, ad entrare in relazione con essa. La sua lotta e la sua sofferenza consisteranno nel realizzare nella propria voce ciò che sente nella sua intuizione musicale.

Un altro ancora, dotato di una grande sensibilità musicale e di una bella voce, è stonato e dopo solo tre note sbaglia, riprendendo la melodia più in alto o più in basso. Per lui, l’apprendistato dell’ascolto e della coerenza della melodia potrà durare anni.

La liturgia richiede molta umiltà e non è il luogo dove si possa «brillare» e affermare la propria superiorità. Certamente, alcuni «capiscono» le cose musicali meglio di altri, ma ogni monaco ha almeno un dono che gli è proprio. Il mettere in comune tutte queste ricchezze – anche quelle che sembrano più umili – apre ad una nuova dimensione spirituale. Al contrario, un atteggiamento che si propone un certo tipo di perfezione estetica, blocca l’apertura alla grazia contenuta nel canto.

Il canto in comune è spesso accompagnato da sofferenze. La sensibilità degli uni viene ferita dall’apparente mediocrità del canto degli altri, o dalla loro apparente indifferenza alle regole che sono state ripetute per degli anni. La croce degli altri è l’insofferenza dei primi. I perfezionisti che hanno l’intuizione di ciò che potrebbe essere il canto hanno una lunga carriera di sofferenze davanti a loro, poiché non ascoltano sempre la perfezione che è all’opera nella liturgia giorno per giorno.

La pratica del canto nel quotidiano si mostra come uno specchio impietoso della comunità. Tutte le tensioni e le differenze vi si cristallizzano. Reciprocamente, il lavoro sul canto in vista dell’unità delle voci e dei cori, ha un’influenza positiva sui rapporti interpersonali e sui conflitti sottostanti. Da ciò l’insistenza dell’Ordine Certosino su una formazione continua del coro e dei monaci. Una tale formazione non ha in vista una perfezione musicale o estetica, quanto un apprendistato all’ascolto degli altri in vista dell’unità delle voci e delle anime in un solo scopo: la lode di Dio nella comunità dei fratelli.

 

Il canto come preghiera

Durante la celebrazione della liturgia, la preghiera personale del monaco si integra e si fonde nella preghiera della comunità, che diventa, attraverso l’atto liturgico, la preghiera della Chiesa. La preghiera liturgica e la preghiera personale non sono antagoniste, ma sono spesso in tensione, secondo il modo in cui il monaco prega e il modo in cui vive la preghiera comunitaria. Alcuni monaci, soprattutto all’inizio, risentono un fastidio di fronte alla liturgia, non trovandovi il legame con la loro propria spiritualità. Addirittura, alcuni novizi hanno l’impressione che la liturgia intralci la loro ricerca interiore con tutte le sollecitazioni esteriori delle cerimonie: Cosa bisogna fare? Cosa bisogna cantare? Come bisogna cantarlo? Chi deve cantare?

I testi che la liturgia propone, salmi, inni e orazioni, vengono studiati dal monaco, nella sua cella. Questo studio orante – la lectio divina – gli permette di assimilarli e di trovare le risonanze di queste parole, essenzialmente bibliche, con il proprio mondo spirituale interiore. Questo permette di collegare la liturgia comunitaria alla preghiera interiore. E poi, con l’abitudine, la liturgia chiede sempre meno sforzi di concentrazione e permette di aprire uno spazio interiore di libertà. Infine, la preghiera dei fratelli sorregge e sostiene la preghiera personale, in maniera visibile ed invisibile.

Durante la celebrazione dell’Ufficio, è chiesto al monaco di vivere dall’interno le parole dei salmi e di farli propri. Ma sarebbe illusorio aspettarsi che lo spirito s’identifichi costantemente con le parole e le immagini dei salmi, quando si pensa che alcuni Uffici ne comportano fino a una ventina, colmi di grida, di sofferenze, di lotte, di gioie, di dubbi. Il fine, tuttavia, non è di consapevolizzare tutte queste emozioni. Questo gli Statuti lo dicono molto chiaramente. La preghiera è in queste immagini e in queste emozioni, ma si colloca soprattutto al di là, in una calma interiore dove lo sguardo di Dio incontra lo sguardo dell’uomo. Il canto, con la sua regolarità, il suo ritmo lento, le sue alternanze da un coro all’altro, lavora in profondità a eliminare le divagazioni mentali, a fissare l’attenzione e a pacificare il cuore, luogo dell’incontro con Dio.

 

Il canto come grazia

La preghiera profonda si colloca al di là delle immagini e delle emozioni del salmista, è uno sguardo d’amore silenzioso scambiato tra l’orante e Dio. Senza che lo si possa né giustificare, né spiegare, l’esperienza comunitaria del canto fa entrare nel movimento interiore della musica, che è della stessa natura del flusso d’amore che unisce il Padre al Figlio e del quale l’uomo partecipa nella preghiera. Ma ciò non è automatico: la tecnica del canto e l’apprendimento del repertorio sono una cosa, il movimento interiore profondo della musica – che è di natura spirituale – è un’altra cosa. Per accedervi, è necessaria molta umiltà, abbandono … e soprattutto l’aiuto della grazia.

La grazia è sempre all’opera nel canto. È percepibile in quei momenti di unità e di armonia che coinvolgono la comunità mentre canta. La grazia è all’opera nel grande processo di apprendimento personale e comunitario, al punto che può essere testimone d’una bellezza che non si sarebbe ritenuta possibile. La grazia è là, in quel modo di essere presenti a Dio che il canto comunitario favorisce.

L’esperienza del canto è inseparabile dallo Spirito Santo, altrimenti detto dal «soffio divino». Spesso sono stato colpito dall’azione dello Spirito Santo nel canto, presso i monaci che ho fatto lavorare. Un monaco canta qualcosa, poi, centrandosi sul suo corpo, sulla sua respirazione, sul suo ascolto, qualcosa in lui si distende e s’abbandona. E di colpo, il movimento dello Spirito, soggiacente alla musica, lo prende, e lui ne è portato. Il suo canto diventa bello, armonioso, malgrado i difetti di voce, di esattezza o di note. D’un tratto il suo canto è passato in un’atra dimensione. È diventato spirituale. È così anche nel canto comunitario: improvvisamente ogni pesantezza scompare, e il coro è portato da un medesimo soffio interiore. Il canto certosino diventa allora uno strumento spirituale, segnato dall’ascesi, dalla preghiera e della grazia, così come la vita solitaria.

Sostenuta dal movimento del gregoriano, l’anima del monaco, purificata dall’ascesi del canto, s’unisce a quella dei fratelli per diventare una sola preghiera, un solo movimento d’amore verso il Padre.

(Laurent Jouvet)