Libro 2 - I monaci laici
Come
un corpo le cui membra non hanno tutte la medesima funzione, fin dalle
origini, il nostro Ordine è formato da padri e fratelli: sia gli uni che
gli altri sono monaci e condividono la stessa vocazione, ma in forme
diverse, mediante le quali la famiglia certosina è in grado di adempiere
più perfettamente la sua funzione nella Chiesa. I
primi, di cui abbiamo trattato finora, sono monaci del chiostro, i quali
vivono nel segreto della loro cella e sono sacerdoti oppure sono destinati
ad esserlo. Gli altri, dei quali con l'aiuto di Dio ora tratteremo, sono i
monaci laici, che consacrano la loro vita al servizio di Dio non soltanto
osservando la solitudine, ma anche dedicandosi maggiormente al lavoro
manuale. Col passare del tempo si è aggiunta ai primi fratelli o conversi un secondo gruppo di fratelli, i donati, i quali, senza voti, per amore di Cristo si donano
all'Ordine con il vincolo di una reciproca obbligazione. E poiché
conducono vita monastica, li chiamiamo ugualmente monaci. Come
i
primi
padri
del
nostro
Ordine
seguirono
le
orme
di
quegli
antichi
monaci
che
professarono
la
vita
solitaria
e
la
povertà
di
spirito,
così
i
nostri
primi
fratelli,
Andrea
e
Guerrino,
decisero
di
perseguire
un
ideale
simile.
Occorre
perciò
che
i
conversi
e
i
donati
non
escano
dai
limiti
dell'eremo
se
non
di
rado
e
per
una
necessità
impellente
e
che
vigilino
a
conservarsi
estranei
ai
rumori
mondani.
Infine,
le
loro
celle
siano
così
isolate
che
entrando
nella
loro
camera,
chiusa
la
porta
e
lasciata
fuori
ogni
preoccupazione
e
sollecitudine,
possano nella quiete pregare il Padre nel segreto. I
fratelli, imitando la vita nascosta di Gesù a Nazaret, nel tempo in cui
svolgono i lavori quotidiani della casa lodano il Signore con le loro
opere, consacrano il mondo alla gloria del Creatore e ordinano le realtà
naturali al servizio della vita contemplativa; nelle ore invece dedicate
alla preghiera solitaria e quando partecipano alla divina liturgia si
dedicano a Dio solo. Perciò i luoghi dove lavorano, così come quelli
dove abitano, devono essere disposti in modo da favorire il raccoglimento
interiore e, benché forniti delle necessarie e utili attrezzature,
abbiano veramente l'aspetto di una casa di Dio e non di edifici profani. Radunati
insieme
dall’amore
del
Signore,
dalla
preghiera,
dal
desiderio
ardente
della
solitudine
e
dal
servizio
che
rendono
con
il
loro
lavoro,
i
fratelli
sono
riuniti
in
un
solo
corpo
sotto
la
direzione
del
procuratore.
Perciò
si
mostrino
veri
discepoli
di
Cristo
non
tanto
di
nome
quanto
di
fatto:
coltivino
con
ardore
l’amore
reciproco,
avendo
i
medesimi
sentimenti,
sopportandosi
a
vicenda,
perdonandosi
scambievolmente
se
qualcuno
abbia
di
che
lamentarsi
nei riguardi degli altri, così che siano un cuor solo e un'anima sola. I
fratelli, osservando la forma di vita solitaria loro propria, lavorano per
provvedere ai bisogni materiali della casa, in modo speciale ad essi
affidati. I monaci del chiostro, aiutati così dai fratelli, possono più
liberamente dedicarsi al silenzio della cella. Padri
e fratelli, pertanto, conformi a Colui che non venne per essere servito ma
per servire, manifestano in vario modo le ricchezze della vita totalmente
consacrata a Dio nella solitudine. Nell'unità
di
uno
stesso
corpo,
queste
due
forme
di
vita
hanno
grazie
differenti,
ma
la
loro
relazione
è
tale
che
fra
di
esse
intercorre
una
comunicazione
di
benefici
spirituali
e
sono
complementari
l'una
all'altra.
Questa
armonia
consente
al
carisma,
affidato
dallo
Spirito Santo
al nostro padre san Bruno, di giungere alla sua pienezza. I
padri
ben
sanno
di
aver
ricevuto,
con
gli
Ordini
sacri
di
cui
sono
stati
insigniti,
non
tanto
una
dignità
quanto
un
servizio.
Il
sacerdozio
ministeriale
e
il
sacerdozio
battesimale
dei
laici
sono
ordinati
a
vicenda;
entrambi
partecipano
dell'unico
sacerdozio
di
Cristo.
Perciò
ciascuno
perseveri
nella
condizione
di
vita
a
cui
è
stato
chiamato,
affrettandosi
con
sollecitudine
per
il
cammino
più
breve
all'unico
fine
della
nostra
vocazione. È
dovere del priore mostrarsi a tutti i suoi figli, monaci del chiostro e
fratelli, come segno dell'amore del Padre celeste, e unirli in Cristo in
modo tale che formino un'unica famiglia e che ognuna delle nostre case,
secondo l’espressione di Guigo, sia veramente una chiesa
certosina. Quest’ultima
ha la sua origine e il suo cardine nella celebrazione del sacrificio
eucaristico che è il segno efficace dell’unità. Esso è pure il centro
e l’apice della nostra vita e il cibo del nostro esodo spirituale,
grazie al quale, nella solitudine, per il Cristo ritorniamo al Padre.
Anche in tutta la liturgia Cristo prega per noi come nostro Sacerdote, e
in noi come nostro Capo. E
poiché seguire le tracce dei nostri padri è una via sicurissima per
giungere a Dio, i fratelli abbiano davanti agli occhi come modelli i primi
conversi di Certosa, i quali, quando ancora non era stata scritta nessuna
regola, dettero forma e spirito al loro genere di vita. Ricordandoli,
san Bruno scrisse con cuore esultante: Quanto
a voi, miei carissimi fratelli laici, dico: L’anima mia magnifica il
Signore, perché ammiro la grandezza della sua misericordia su di voi. Mi
rallegro infatti perché, sebbene non siate esperti nella scienza delle
lettere, Dio onnipotente scrive con il suo dito nei vostri cuori non solo
l’amore, ma anche la conoscenza della sua santa legge, poiché con
quello che fate mostrate quel che amate e conoscete. Infatti voi praticate
con ogni cura e zelo la vera obbedienza che è l’adempimento dei
comandamenti di Dio, la chiave e il sigillo della totale sottomissione
allo Spirito. Essa non può mai esistere senza una grande umiltà e una
singolare pazienza, ed è sempre accompagnata da un casto amore per il
Signore e da un'autentica carità. È perciò evidente che voi raccogliete
con saggezza il frutto soavissimo e vitale della divina Scrittura.
Perseverate dunque fratelli miei nello stato in cui siete pervenuti. Il
nostro impegno e la nostra vocazione consistono principalmente nel trovare
Dio nel silenzio e nella solitudine. Qui infatti il Signore e il suo servo
conversano spesso insieme come un amico col suo amico, l’anima fedele
viene unita frequentemente al Verbo Divino, la sposa è congiunta allo
Sposo, le cose celesti si associano alle terrene, le divine alle umane.
Tuttavia, solitamente, è lungo il cammino con il quale, per una strada
brulla e riarsa, si compie il pellegrinaggio fino alla sorgente dell'acqua
viva. Il
fratello pertanto ricercherà con vigile impegno la solitudine esterna,
che spesso non è protetta dall’isolamento del chiostro e dal riparo
della cella. Però la solitudine esterna non giova a nulla se non si
custodisce anche la solitudine interiore in ogni tempo, anche mentre si
lavora, benché senza tensione d'animo. I
fratelli, quando non sono occupati in chiesa per l’Ufficio divino o
nelle obbedienze per i lavori, ricorrono sempre alla cella come al porto
più sicuro e più tranquillo. In essa rimangono nella quiete e, per
quanto è possibile, senza fare nessun rumore, seguendo fedelmente
l’ordinata successione delle pratiche spirituali e facendo tutto davanti
a Dio nel nome del Signore Gesù Cristo e per mezzo di lui rendendo grazie
a Dio Padre. Qui si occupano utilmente nel leggere o meditare,
principalmente la Sacra Scrittura, che è il cibo dell'anima; oppure si
dedicano alla preghiera per quanto possono, non inventando né accettando
nessuna occasione d'uscire di cella, eccettuate quelle che sono
generalmente stabilite o derivano dall'obbedienza. L'uomo infatti per
natura talora è portato a fuggire il silenzio della solitudine e la
quiete; perciò sant’Agostino dice: Per
gli amici di questo mondo niente è più affannoso che non affannarsi.
I fratelli possono anche, per vantaggio spirituale, dedicarsi talvolta in
cella a qualche piccolo lavoro con l'assenso del procuratore. Il
primo atto di carità verso i nostri fratelli consiste nel rispettare la
loro solitudine; se abbiamo il permesso di parlare nella loro cella di
qualche faccenda, evitiamo i discorsi inutili. Perché
i fratelli possano seguire meglio la propria vocazione, il loro lavoro sia
ripartito in modo che ciascuno, per quanto è possibile, lavori da solo,
anche se più fratelli si trovano insieme nella stessa obbedienza. Quanta
utilità e gioia divina arrechino la solitudine e il silenzio dell’eremo
a coloro che li amano, lo sanno solo quelli che ne hanno fatto
l'esperienza. Qui, in cambio del faticoso combattimento, Dio dona ai suoi
atleti la desiderata ricompensa, cioè la pace che il mondo ignora e la
gioia nello Spirito Santo.
Poiché
abbiamo abbandonato per sempre il mondo per stare incessantemente davanti
alla divina Maestà, coscienti delle esigenze del nostro stato, aborriamo
dall'uscire e dal girare per paesi e città. A nulla però gioverebbe
osservare con tanto rigore la clausura, se per mezzo di essa non
tendessimo a quella purezza di cuore cui soltanto è promesso di vedere
Dio. Per conseguirla si richiede un grande spirito di mortificazione,
soprattutto della naturale curiosità che l’uomo prova per le vicende
umane. Non dobbiamo permettere alla nostra mente di vagare per il mondo
alla ricerca di novità e di chiacchiere; nostro compito invece è di
rimanere nascosti nel segreto del volto del Signore. I
fratelli non escono dalla clausura senza il permesso del priore o del
procuratore. Quando
un fratello è inviato in una località vicina non accetta da nessuno né
cibo, né bevanda, né ospitalità, salvo che abbia ricevuto un ordine
speciale o che vi sia stato costretto da un’inevitabile e imprevista
necessità. Il
portinaio abbia con tutti modi affabili e religiosi e si astenga
assolutamente dall’eccessivo parlare; così infatti potrà essere di
buon esempio ai secolari. Se giudicherà di dover far entrare oppure
dolcemente respingere qualcuno, lo faccia con gentili ma pochissime
parole. Chi lo sostituisce ha l’ordine di osservare la medesima
prescrizione. La
clausura esterna sarebbe inutile se mantenessimo un frequente contatto con
persone di fuori mediante corrispondenza epistolare. Non mandiamo né
riceviamo lettere senza che ne sia stato informato il priore. Ricordiamoci
inoltre che i secolari non si attendono da un certosino discorsi su
notizie vane o fatti pubblici; perciò, evitando le chiacchiere profane,
scriviamo solo in unione a Cristo sotto lo sguardo di Dio. L'ammirabile
carisma del celibato, che ci è stato concesso dalla divina grazia, rende
particolarmente libero il nostro cuore così che ognuno di noi,
conquistato da Cristo, si consacri totalmente a lui. Tale carisma non
lascia alcun posto né per la grettezza d’animo né per l’egoismo;
essendo invece la risposta all'ineffabile amore che Cristo ci ha mostrato,
deve dilatare in noi l’amore, così che, per una attrattiva
irresistibile, accenda l'animo ad un sempre più perfetto sacrificio di se
stesso. L'anima
del monaco sia dunque nella solitudine come un lago tranquillo le cui
acque, scaturendo dalla purissima fonte dello spirito e non essendo
agitate dall’ascolto di nessun rumore venuto dall’esterno, riflettano,
quale nitido specchio, la sola immagine di Cristo.
Dio
condusse il suo servo nella solitudine per parlargli al cuore, ma
solamente colui che ascolta nel silenzio percepisce il mormorio del vento
leggero che manifesta il Signore. Benché nei primi tempi tacere possa
essere una fatica, gradualmente, se saremo stati fedeli, dallo stesso
nostro silenzio nascerà in noi l’attrattiva verso un silenzio ancora
maggiore. Perciò
non è lecito ai fratelli parlare liberamente di ciò che vogliono, con
chi vogliono e finché lo vogliono. Possono parlare
di ciò che è utile al proprio lavoro, ma con poche parole e sottovoce.
Ad eccezione delle cose che si riferiscono all'utilità del lavoro,
possono parlare coi monaci o con gli
estranei soltanto se ne hanno il permesso. Essendo,
dunque, l'osservanza del silenzio della massima importanza per la vita dei
fratelli, bisogna che questa norma sia diligentemente osservata. Tuttavia,
nei casi dubbi che la legge non prevede, ciascuno deve con discrezione
giudicare se gli sia lecito parlare e quanto, secondo la coscienza e le
necessità. La
venerazione piena d’amore allo Spirito Santo che abita in loro e la
carità verso i confratelli richiede che, quando è loro consentito di
parlare, i fratelli pesino il numero e la misura delle parole. È da
credere infatti che un colloquio, prolungato a lungo e inutilmente,
rattrista più lo Spirito Santo e porta maggior dissipazione che non poche
parole dette anche senza permesso, ma subito interrotte. Spesso una
conversazione utile all'inizio, presto diventa inutile e poi biasimevole. Di
domenica, nelle solennità e nei giorni dedicati in modo speciale al
raccoglimento, osservano il silenzio e custodiscono la cella con maggiore
diligenza. Inoltre tutti i giorni, dopo l'Angelus della sera fino a Prima,
dovunque in casa deve regnare un silenzio perfetto che non possiamo
rompere senza una necessità veramente urgente. Infatti questo tempo
notturno, secondo gli esempi della Scrittura e lo spirito degli antichi
monaci, favorisce in modo particolare il raccoglimento e l'incontro con
Dio. Senza
permesso i fratelli non presumano di rivolgere la parola o di conversare
con persone secolari che sopraggiungono, ma possono soltanto restituire il
saluto a chi incontrano o a chi li avvicina, e rispondere brevemente alle
loro domande, scusandosi di non avere il permesso di parlare di più con
essi. La
custodia del silenzio e il raccoglimento dell'animo richiedono dai
fratelli una vigilanza speciale perché hanno molte occasioni di parlare.
Essi non potranno essere perfetti in queste osservanze se non si
sforzeranno con ardore di camminare alla presenza di Dio.
I
fratelli si dedicano ai lavori nelle ore stabilite, affinché, mentre
provvedono alle necessità della casa, con il loro lavoro compiuto in
unione con Gesù, figlio del falegname, essi facciano concorrere ogni
creatura alla lode della gloria di Dio e glorifichino il Padre, associando
tutto l'uomo all'opera della Redenzione. Infatti nel sudore e nella fatica
del lavoro ritrovano un frammento della croce di Cristo, dalla quale, per
la luce della sua risurrezione, sono resi partecipi dei cieli nuovi e
della terra nuova. Secondo
le antiche tradizioni monastiche, tale lavoro è di grande aiuto per
esercitarsi nelle virtù e progredire nella via della carità perfetta.
Con esso infatti l'uomo esteriore e interiore trovano il loro giusto
equilibrio, così che la solitudine sia più vantaggiosa ai fratelli. Quanto
alle obbedienze e a tutto ciò che hanno, i fratelli agiscono secondo le
disposizioni del priore e del procuratore, unendo le doti naturali e i
doni della grazia nell'adempimento dei compiti loro assegnati. Così
l'obbedienza dilata la libertà dei figli di Dio e con questa volontaria
sottomissione essi contribuiscono ad edificare il Corpo di Cristo secondo
il piano di Dio. Il
procuratore verso i fratelli e l'incaricato di un’obbedienza verso il
suo aiutante, esercitino l’autorità in spirito di servizio, in modo da
esprimere la carità con cui Dio li ama. Li consultino o ascoltino
volentieri, pur rimanendo ferma la loro autorità di decidere e di
comandare ciò che deve farsi. Così, nel compimento dei loro incarichi,
tutti cooperano con un'obbedienza attiva e piena d'amore. Uniti
strettamente a Gesù Cristo che da ricco che era si è fatto povero per
noi, i fratelli lavorano sempre in spirito di povertà. Essi evitano
soprattutto qualsiasi spreco e vigilano che gli strumenti non vadano
smarriti. Allo stesso modo provvedono con cura alla manutenzione degli
strumenti e specialmente delle macchine. Tutti
i fratelli, anche chi è già incaricato di un'obbedienza, devono
volentieri prestare aiuto alle altre obbedienze quando è necessario e
viene loro ordinato, portando con gioia i pesi gli uni degli altri. Il
raccoglimento dell'animo durante il lavoro condurrà il fratello alla
contemplazione. Per ottenerlo è sempre permesso ricorrere durante il
lavoro a brevi slanci di preghiera e talvolta anche interrompere le
attività con qualche istante di orazione. L'infermiere,
come anche il cuoco e quelli che devono provvedere agli speciali bisogni
degli infermi, circondino d'amore coloro che sono afflitti da infermità;
anzi riconoscano nei sofferenti l'immagine di Cristo sofferente,
rallegrandosi di poter servire e dar sollievo in essi a Cristo stesso. La
vita del fratello è ordinata soprattutto all'unione con Cristo per
rimanere nel suo amore. Perciò sia nella solitudine della cella sia anche
nelle sue attività, egli si applichi con tutto il cuore, sostenuto dalla
grazia della vocazione, ad avere sempre Dio presente nello spirito.
Coloro
che, ferventi di divino amore, desiderano lasciare il mondo e cercare i
beni eterni, quando vengono da noi siano ricevuti con quel medesimo
spirito. È perciò assai necessario che i novizi trovino nelle case dove
verranno formati l’esempio di osservanza regolare, di pietà, di
solitudine e di silenzio, e di carità fraterna. Mancando queste
condizioni c'è poca speranza che possano perseverare nella nostra
vocazione. I
candidati che vengono da noi devono essere esaminati diligentemente e con
cautela, secondo la raccomandazione dell’Apostolo Giovanni: Mettete
alla prova le ispirazioni per vedere se provengono da Dio.
L'esperienza dimostra senza alcun dubbio che il progresso o la decadenza
di un Ordine, sia quanto al valore, sia quanto al numero dei membri,
dipende principalmente da un’attenta o negligente ammissione e
formazione dei novizi. I priori devono perciò indagare con precauzione
sulla famiglia dei novizi e sulla loro vita antecedente, come anche sulla
loro idoneità di mente e di corpo; anzi, a tale proposito sarà utile
consultare medici esperti che conoscano bene il nostro genere di vita.
Infatti fra le qualità di cui devono essere dotati gli aspiranti alla
vita solitaria va annoverato in primo luogo un criterio equilibrato e
sano. Non
siamo soliti accettare novizi sotto i venti anni; inoltre, di coloro che
chiedono di essere ricevuti vanno ammessi soltanto quelli che, a giudizio
del priore e della maggioranza della comunità, posseggano un grado
sufficiente di pietà, di maturità e di forze fisiche per assumere le
osservanze dell'Ordine; e siano sufficientemente atti non solo alla
solitudine, ma anche alla vita comune. Nel ricevere persone di età avanzata dobbiamo essere più
cauti, perché troppo difficilmente si abituano alle osservanze e al
nostro genere di vita; perciò non vogliamo che si riceva nessun aspirante
allo stato di converso di età superiore ai quarantacinque anni compiuti,
senza espressa autorizzazione del Capitolo Generale o del Reverendo Padre.
Questo permesso si richiede anche per ammettere al noviziato un religioso
che è vincolato con la professione in un altro istituto; e se si tratta
di un professo di voti perpetui, il Reverendo Padre deve ottenere il
consenso del Consiglio Generale. Per l’ammissione di una persona che in
passato sia stata vincolata con voti in un istituto religioso, siamo
invitati a chiedere prima il parere del Reverendo Padre. Quando
qualcuno si presenta a noi chiedendo di divenire nostro fratello, bisogna
che non abbia nessun impedimento canonico, sia mosso da retta intenzione e
idoneo ad assumere le osservanze dell'Ordine. Perciò venga interrogato
con cura su tutto ciò la cui conoscenza sembra necessaria o opportuna per
giudicare rettamente sulla sua ammissione. Ciò fatto, viene chiaramente spiegato al candidato il
fine della nostra vita, la gloria che speriamo provenga a Dio dalla nostra
cooperazione all'opera redentrice, e quanto sia bello e gioioso aderire a
Cristo dopo aver abbandonato tutto. Però gli si prospettano anche le
difficoltà e le austerità, e, per quanto è possibile, gli si pone
davanti agli occhi il quadro completo del genere di vita cui intende
sottoporsi. Se sarà rimasto imperterrito di fronte a tale presentazione,
e se avrà promesso risolutamente di essere disposto a perseverare in un
cammino arduo in forza delle parole del Signore, deciso a morire con
Cristo per vivere con lui, allora lo si consiglia di riconciliarsi,
secondo il Vangelo, con tutti coloro che abbiano qualcosa contro di lui. Dopo
qualche giorno di permanenza presso di noi, se il priore si è accertato
che lo si può accettare, l'aspirante riceverà il mantello di postulante
dalla mano del maestro dei novizi. Lo si eserciterà in diversi lavori ed
obbedienze e parteciperà all'Ufficio divino, così che possa abituarsi al
più presto al nuovo genere di vita. Prima di iniziare il noviziato farà
nella casa un periodo di prova di almeno tre mesi o di un anno al massimo. Il
novizio, poiché desidera lasciare tutto per seguire Cristo, consegni
integralmente al priore il denaro e gli altri oggetti che potrebbe aver
portato con sé, affinché non lui, ma il priore, o chi dal priore ne sarà
stato incaricato, li conservi. Noi non esigiamo né chiediamo
assolutamente nulla a coloro che vogliono entrare nel nostro Ordine e ai
novizi. Il
noviziato compiuto per essere monaci laici, non vale per divenire monaci
del chiostro, e viceversa. Il
noviziato dura due anni; tempo che può essere prolungato dal priore, ma
non oltre sei mesi. Il candidato, almeno prima di cominciare il secondo
anno, scelga tra lo stato di converso e quello di donato; e lo faccia di
propria volontà e con piena libertà. Il
novizio non si spaventi per le tentazioni che solitamente insidiano coloro
che seguono Cristo nel deserto; né confidi nelle proprie forze, ma abbia
fiducia nel Signore che gli ha dato la vocazione e porterà a termine
l'opera iniziata.
Il
monaco, morto al peccato e consacrato a Dio col battesimo, mediante la
professione si offre più pienamente al Padre e si libera dai legami del
mondo per poter tendere più direttamente alla carità perfetta. Stretto
al Signore con patto saldo e stabile, partecipando al mistero della
Chiesa, unita a Cristo con vincolo indissolubile, dà testimonianza al
mondo della vita nuova acquisita mediante la Redenzione di Cristo. Compiuto
lodevolmente il noviziato, il novizio converso viene presentato alla
comunità. Prostrato in capitolo, egli chiede misericordia e supplica per
amore di Dio di essere ammesso alla prima professione in abito di professo
come il più umile servo di tutti. Dopo
almeno otto giorni di ritiro spirituale, nel giorno stabilito, il fratello
in capitolo rinnoverà la sua supplica in presenza della comunità. Allora
il priore richiamerà la sua attenzione sulla stabilità, l'obbedienza, la
conversione dei costumi e altre cose necessarie allo stato di converso. Il
fratello farà poi la professione per tre anni in chiesa. Si badi in ogni
modo che il fratello si risolva ad emettere i voti dopo matura riflessione
e che si vincoli in piena libertà. Allo
scadere del triennio, spetta al priore, dopo un voto della comunità,
ammettere il giovane professo alla rinnovazione della professione
temporanea per due anni. I
professi temporanei sono ammessi alla professione solenne dal priore dopo
una votazione dei monaci di voti solenni, però col consenso del Reverendo
Padre. Il
discepolo che vuole seguire Cristo deve rinnegare tutto e se stesso; perciò
prima dei voti solenni il futuro professo rinunzi a tutti i beni che in
quel momento possiede; può anche, se vuole, disporre dei beni di cui ha
diritto. Nessuna persona dell'Ordine chieda assolutamente nulla dei suoi
beni al professo temporaneo, anche per opere pie e per elemosine da
elargire a chiunque; egli stesso invece disponga liberamente dei suoi beni
come vuole. Nel
giorno stabilito il candidato emette la professione durante la Messa
conventuale, dopo il Vangelo o il Credo.
In quel momento infatti l’offerta di se stesso, che intende fare con
Cristo, è da Dio accettata e consacrata per le mani del priore. Il
futuro professo scriverà di persona in italiano la formula di professione
in questi termini: Io, fra N.,
prometto... obbedienza, conversione dei miei costumi e perseveranza in
questo eremo, davanti a Dio e ai suoi santi e alle reliquie di questo
eremo, edificato ad onore di Dio, della Beata sempre Vergine Maria e di
san Giovanni Battista in presenza di dom N. priore. Se
si tratta di professione temporanea, dopo la parola prometto si aggiungano le parole necessarie per indicare la durata;
se si tratta di professione solenne, si aggiunga perpetua. Si
noti che tutti i nostri eremi sono consacrati in primo luogo alla Beata
sempre Vergine Maria e a san Giovanni Battista, che consideriamo nostri
principali patroni celesti. Dal
momento della sua professione sappia il fratello che non può
assolutamente aver nulla in suo possesso senza il permesso del priore,
neppure il bastone cui si appoggia camminando, dato che non è più
padrone di se stesso. Infatti, se tutti coloro che hanno scelto la vita
religiosa devono praticare con grande zelo l'obbedienza, noi dobbiamo
farlo con una dedizione e una sollecitudine tanto più grandi quanto più
austera e ardua è la regola di vita cui ci siamo sottoposti, affinché
non succeda che, Dio non voglia, mancando l'obbedienza, tanti faticosi
sforzi siano privi di ricompensa. Ciò faceva dire a Samuele: L'obbedienza
è migliore del sacrificio, ed essere docili è più che offrire il grasso
degli arieti.
Nella
casa di Dio vi sono molti posti: da noi, oltre i monaci del chiostro e i
conversi, vi sono anche i donati, i quali, dopo aver abbandonato il mondo,
hanno anch’essi cercato la solitudine della Certosa, per consacrare
tutta la loro vita al Signore dedicandosi alla preghiera e al lavoro al
riparo della clausura. Infatti non di rado uomini veramente santi
preferirono vivere e morire nello stato di donati, allo scopo di poter
godere, annoverati tra i figli di san Bruno, della sua santa eredità. Compiuto
lodevolmente il noviziato, il novizio donato viene ammesso dal priore a
fare la donazione temporanea, dopo un voto dei professi di voti solenni e
dei donati perpetui. Nel
giorno della donazione, sia temporanea, sia perpetua, il futuro donato,
dopo almeno quattro giorni di ritiro, prima dei Vespri pronunzi alla
presenza di tutta la comunità la donazione redatta in lingua italiana in
questa forma e in questi termini: Io,
fra N., per amore del Signore nostro Gesù Cristo, per la salvezza della
mia anima e per contribuire alla crescita della Chiesa, prometto di
servire Dio fedelmente come donato, pronto ad osservare l'obbedienza e la
castità e a vivere senza nulla in proprio. Perciò mi dono… a questa
casa, in base a reciproco impegno, per servirla in ogni tempo,
sottomettendomi alla disciplina dell'Ordine, secondo gli Statuti. Dopo
le parole mi dono, si aggiunga per
tre anni se si tratta della donazione temporanea; similmente se essa
sia stata prorogata, si indichi la durata della proroga; se invece si
tratta della donazione perpetua, si specifichi in
perpetuo. Il
donato,
sebbene
viva
senza
aver
nulla
in
proprio,
conserva
la
proprietà
e
la
facoltà
di
disporre
dei
suoi
beni.
Tuttavia
prima
della
donazione
perpetua
nessuno
alieni
o
permetta
che
sia
alienato,
anche col consenso dello stesso donato, alcuno dei suoi beni. Al
termine del triennio di donazione temporanea spetta al priore, dopo un
voto della comunità, compresi i donati perpetui, ammettere il candidato
alla rinnovazione della donazione temporanea per due anni. Tuttavia il
priore può prolungare il tempo della donazione temporanea, ma non oltre
un anno. Terminato
il tempo di prova, spetta al priore, dopo un voto della comunità,
compresi i donati perpetui, ammettere il fratello o alla donazione
perpetua, o a entrare nel regime della rinnovazione triennale della
donazione. Per l'ammissione alla donazione perpetua è inoltre richiesto
il consenso del Reverendo Padre. Quanto
all'Ufficio divino e alle altre osservanze, i donati hanno consuetudini
proprie, che possono essere adattate alle loro necessità; così ciascuno
può attuare nella maniera che gli è più conveniente la nostra
vocazione: ossia di vivere uniti con Dio nella solitudine e nel silenzio.
Non usino questa ordinata libertà come un pretesto per vivere secondo la
carne, ma la mettano al servizio della carità. Così in modo diverso
servono il Signore, senza che siano sminuiti la loro vera offerta a Dio e
il loro impegno di santificazione. Essi inoltre prestano un aiuto
validissimo alla casa assolvendo talvolta servizi che ostacolerebbero i
conversi nelle loro osservanze.
I
giovani fratelli sono sotto la direzione del maestro dei novizi che deve
essere sempre un padre rivestito del sacerdozio. Egli sia, inoltre, una
persona ragguardevole per pietà, per amore della quiete e del silenzio,
per senno e per prudenza, che arda di sincera carità, che irradi amore
per la nostra vocazione, che sappia anche comprendere la diversità dei
caratteri ed abbia lo spirito aperto alle necessità dei giovani. I
conversi restano sotto la sua guida fino alla professione solenne; i
donati, fino alla donazione perpetua o fino al loro ingresso nel regime
della rinnovazione triennale della donazione. Il
maestro insegna ai suoi discepoli ad attingere alla pura fonte della
parola di Dio la vita di preghiera, radicata nella fede e nella carità, e
ad armonizzarla con gli elementi propri del loro stato, cioè la
solitudine, il silenzio, la liturgia e il lavoro. Egli promuove anche la
conoscenza e l'amore per i nostri Statuti e per le tradizioni dell'Ordine.
Cercherà con sollecitudine che l'amore per Cristo e per la Chiesa cresca
nei novizi di giorno in giorno. Una volta alla settimana si dedica alla
formazione comune dei novizi, tenendo una conferenza di almeno mezz'ora
nella quale li istruisce principalmente sullo spirito e sulle osservanze
della nostra vocazione. Ai novizi si concede di rimanere maggior tempo in
cella affinché possano dedicarsi meglio alla propria formazione
spirituale. Visitando
i
novizi
e
conversando
con
semplicità
con
loro
in
privato
il
maestro
impara
a
conoscere
le
loro
disposizioni
di
animo
e
dà
consigli
adatti
ai
loro
particolari
bisogni,
in
modo
che
ciascuno
sia in grado
di giungere alla perfezione della propria vocazione. Il
procuratore, che a motivo del suo incarico ha occasione di vivere in
contatto quotidiano con i fratelli, li formerà ben più efficacemente
alle virtù e alla preghiera mediante l'esempio delle virtù e di una vita
di preghiera da lui stesso praticate. La divina dottrina si inculca
vivendola più che parlandone. Fin
dal tempo della formazione si faccia attenzione che i fratelli non siano
sovraccaricati da troppi esercizi in comune o da osservanze estranee al
nostro Ordine; si badi piuttosto di iniziarli alla vita di preghiera e al
vero spirito monastico. Spetta
al priore e al maestro dei novizi giudicare, con la loro prudenza e
discrezione, dell'idoneità dei candidati o dei giovani fratelli a seguire
la nostra vocazione. Per divenire certosino di fatto oltre che di nome,
non basta volerlo; si richiede anche, con l'amore per la solitudine e per
il nostro genere di vita, una speciale attitudine di anima e di corpo.
Ammettere o trattenere troppo a lungo un candidato quando risulta che gli
manchino le doti necessarie, è falsa e quasi crudele compassione. Il
maestro badi con gran cura che il novizio prenda in piena libertà una
decisione riguardo alla sua vocazione e non lo spinga in nessun modo ad
emettere la donazione o la professione. I
giovani fratelli abbiano la libertà di incontrarsi con il maestro dei
novizi e abbiano sempre la possibilità di comunicare con lui, ma di
spontanea volontà e senza nessuna costrizione. Noi li esortiamo a
manifestare con semplicità e fiducia le loro difficoltà al maestro,
accogliendolo come colui che è stato scelto dalla divina Provvidenza per
dirigerli e aiutarli. Allo stesso modo tutti i fratelli possono
liberamente recarsi dal priore, che, come padre comune, li riceverà
sempre con benevolenza e talvolta li visiterà in cella, mostrando la
medesima sollecitudine verso tutti, senza preferenza di persone. I
fratelli anziani, in modo speciale quelli incaricati di obbedienze,
concorrono efficacemente alla formazione dei giovani con i quali lavorano,
offrendo loro nelle circostanze di ogni giorno l’esempio di osservanza
regolare, di virtù e di preghiera. Tuttavia, si astengano generalmente da
colloqui, anche spirituali, poiché non devono immischiarsi in problemi
della coscienza altrui. Affinché
la vita spirituale dei fratelli poggi su solide basi, all’inizio della
loro vita monastica verrà data ai giovani fratelli una formazione
dottrinale, alla quale ogni giorno sarà riservato un certo tempo. Tale
formazione ha lo scopo d'introdurre il giovane fratello nelle ricchezze
nascoste nella Parola di Dio, e di consentirgli di apprendere in modo
personale i misteri della nostra fede, mentre impara meditando a trarre
profitto da ottimi libri. Impartire questa formazione è compito del
priore, del maestro e del procuratore, i quali agiranno di comune accordo,
secondo le direttive del Capitolo Generale. La
formazione spirituale e dottrinale dei fratelli deve approfondirsi durante
tutta la loro vita. A tal fine, i padri designati dal priore collaborino
col procuratore tenendo una conferenza domenicale a tutti i fratelli. In
essa, dalla festa di Tutti i santi a Pasqua vengono spiegati gli Statuti,
i cui consueti capitoli devono essere letti ogni anno conventualmente ai
fratelli; tale conferenza, nel corso della quale i fratelli vengono
istruiti anche riguardo alle osservanze dell'Ordine, di preferenza viene
affidata al procuratore. Da Pasqua sino alla festa di Tutti i santi la
conferenza tratta della dottrina, della vita spirituale, della Sacra
Scrittura e della liturgia, secondo le direttive che stabilirà il priore.
L'insegnamento sia ad un tempo profondo e adatto alla comprensione dei
fratelli. Se sembrerà opportuno queste due serie di istruzioni potranno
essere ripartite in altro modo, senza però che venga ridotto il tempo
assegnato a ciascuna di esse. In tal modo i fratelli impareranno l'eminente scienza di Gesù Cristo, purché si dispongano ad accoglierla con una vita di silenziosa preghiera, nascosta con Cristo in Dio. Questa è infatti la vita eterna: che conosciamo il Padre e colui che il Padre ha mandato, Gesù Cristo. |