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Letture della preghiera notturna dei certosini

[Anno A] [Anno C]

Anno A

Tempo Ordinario

Quinta Settimana

 

77

 

Dalle lettere di Barsanufio e Giovanni di Gaza.

Lettera 339. A un fratello

Barsanuphe et Jean de Gaza, Correspondance. Solesme, 1972, 243,-244.

 

La carità verso il prossimo si manifesta in molti modi, e non soltanto nel dare. Ascolta come. Può capitarti che te ne vai da qualche parte con il prossimo e ti rendi conto che vorresti ricevere più onore di lui, invece di rallegrarti che egli riscuota la medesima stima che te. Così facendo, non lo consideri come te stesso. Ha detto infatti l’Apostolo: Gareggiate nello stimarvi a vicenda.

Se hai qualcosa da mangiare e noti in te la voglia di gustartela da solo, per ingordigia e non per bisogno, di nuovo non consideri il prossimo come te stesso.

Vedi il fratello lodato e non ti congratuli con lui, perché non ricevi le medesime lodi; invece, dovresti dire: “L’elogio al fratello si estende a me, perché è un mio membro.

Anche in tale occasione tu non hai amato il prossimo tuo come te stesso. Ciò vale per tutti i casi analoghi.

Ecco ancora un altro modo di considerare il prossimo come se stesso. Se apprendi dai padri la via di Dio e il tuo fratello ti interroga, non essere avaro nel mostrarti sollecito di lui e nell'aiutarlo. Ma poiché sai che e tuo fratello, digli quanto hai appreso, con timore di Dio e senza atteggiarti a maestro, cosa che non ti giova.

 

 

 

78

 

Dalle Lettere di Barsanufio e Giovanni di Gaza.

Lettera 376. A un fratello.

Barsanuphe et Jean de Gaza, Correspondance. Solesme, 1972, 64.265.

 

La libertà è la verità espressa chiaramente. Buona perciò è la libertà, ma deve essere gestita nel timore di Dio.

Se quando hai bisogno di qualcosa, non lo dici aspettan­do che il tale *o il tal'altro te lo dia da sé, ecco quello che accade: potrà darsi ch'egli ignori la tua necessità, oppure, saputala, se ne dimentichi; o anche, volendoti mettere alla prova, faccia così per vedere se hai pazienza. Ora avviene che tu ti sdegni contro di lui e così cadi in peccato.

Se invece gli parli con franchezza, non succederà nulla di tutto questo.

Tu però disponi bene il tuo pensiero fin da prima, per­ché, se dopo aver chiesto ciò che cerchi non lo ottieni, tu non rimanga afflitto o indignato e cominci a mormorare. Dì piuttosto al tuo pensiero: "Probabilmente non potrà fornirmi quanto gli ho chiesto; oppure io non ne sono degno e perciò Dio non gli ha permesso di darmelo".

E bada di non incupirti per quel rifiuto, perdendo la libertà nei suoi riguardi, così da non osare chiedergli mai più nul­la, quando la necessita lo richieda. Cerca di custodire sempre te stesso senza turbamento rispetto a quel rifiuto.

D'altra parte, se uno ti chiede di che cosa hai biso­gno, anche in questo caso dì la verità. E se, preso alla sprovvista, tu dicessi: "Non ho bisogno", smentisciti e sog­giungi: "Scusami, ho parlato a vanvera, perché ho bisogno di tenere quella cosa".

 

 

150

 

 

Dalle "Lettere a Serapione sullo Spirito Santo" di sant'Atanasio.

Epistolae ad Serapionem. I,14.16. PG 26,565.569.

 

La santa e beata Trinità è indivisibile. La sua unita è tale che quando viene nominato il Padre, va immediatamente pensato sia il Verbo sia lo Spirito che è nel Figlio. E se viene nominato il Figlio, va inteso che il Padre è nel Figlio e che lo Spirito non è fuori del Verbo.

Unica infatti è la grazia che venendo dal Padre attraverso il Figlio si compie nello Spirito Santo. Unica pure è la divinità e non c’è che un solo Dio, che è al di sopra di tutto, agisce per tutto ed è in tutte le cose.

Dio non è come l'uomo, e la sua natura non è il frutto di una divisione di parti. Il Padre non genera il Figlio cedendo parte di sé, per cui il Figlio diventerebbe a sua volta padre: Dio come tale non viene da un padre. Tanto meno il Figlio è parte del Padre e non genera, anche se lui è stato generato; invece è tutto immagine e splendore di tutto il Padre.

In seno alla divinità solo il Padre è in senso proprio "Padre" e il Figlio è in senso proprio "Figlio"; solo di loro ha valore affermare che da sempre il Padre è Padre e da sempre il Figlio è Figlio.

Come il Padre non potrebbe mai essere figlio, così il Figlio non potrebbe mai diventare padre. E come il Padre non cesserà mai di essere soltanto Padre, così il Figlio non cesserà mai di essere soltanto Figlio.

È una pazzia anche solo pensare e dire che al nome di Figlio si possa aggiungere quello di fratello e al nome di Padre quello di nonno. Nelle Scritture lo Spirito non è chiamato né, figlio, perché non lo si immagini fratello del Figlio, né è detto figlio del Figlio, perché il Padre non sia pensato nonno. Ma il Figlio è detto Figlio del Padre, e lo Spirito è Spirito del Padre.

In questo modo la divinità della Trinità santa è una, e una la nostra fede in essa.

 

                                                              

151

 

Dalle "Lettere a Serapione sullo Spirito Santo" di sant'Atanasio.

Epistolae ad Serapionem. I,19. PG 26,573‑576.

 

Nella Scrittura il Padre è chiamato "fonte" e “luce". Il Signore dice infatti per bocca di Geremia: Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva. E in Baruc: Perché, Israele, perchè ti trovi in terra nemica? Tu hai abbandonato la fonte della sapienza. E in san Giovanni leggiamo poi che Dio è‑luce.

Il Figlio, rispetto alla fonte, è chiamato "fiume", perché, secondo il salmista, il fiume di Dio gonfio di acqua. Rispetto invece alla luce, il Figlio è chiamato "splendore" del Padre, perché, come dice Paolo, egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza.

Il Padre dunque è luce e il Figlio è il suo splendore, e nello Spirito noi siamo illuminati. Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo ‑ dice infatti l'Apostolo ‑ vi dia lo Spirito di sapienza e di rivelazione, per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente.

Quando siamo illuminati grazie allo Spirito, è Cristo ad essere la nostra luce, perché ‑ come dice san Giovanni ‑ egli è la luce vera che illumina ogni uomo.

Analogamente, se il Padre è la fonte e il Figlio è chiamato fiume, noi "beviamo" lo Spirito, come sta scritto: Tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito.

Viceversa, dissetati dallo Spirito, beviamo il Cristo: Bevevano infatti dalla roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo, leggiamo nella prima lettera ai Corinzi.

 

 

152

 

Dalle 'Tettere a Serapione sullo Spirito Santo" di sant'Atanasio.

Epistolae ad Serapionem. 1, 19. PG 26,576.

 

Cristo è il vero Figlio; noi invece diventiamo figli, ricevendo lo Spirito, come dice l'Apostolo: Non avete ricevuto uno spirito da schiavi, per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che vi fa figli adottivi.

Se diventiamo figli grazie allo Spirito, è chiaro però che non siamo chiamati figli di Dio se non in Cristo, dal momento che a quanti l'hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio.

Il Padre è il solo sapiente e il Figlio è la sapienza del Padre, perché Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Se il Figlio è la sapienza, noi, ricevendo lo Spirito di sapienza, abbiamo il Figlio e in lui diventiamo sapienti.

Quando ci viene donato lo Spirito ‑ Ricevete lo Spirito Santo, disse il Salvatore ‑ Dio stesso è con noi. Così infatti ha scritto san Giovanni: Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi. Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito. E se Dio è in noi, anche il Figlio è in noi, secondo la parola del Figlio stesso: Io e il Padre verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.

Il Figlio è vita, poiché egli dice: Io sono la vita. Eppure sta scritto che noi siamo vivificati nello Spirito, perché Colui che ha risuscitato Cristo dai morti, darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.  Ma quando noi siamo vivificati nello Spirito, è Cristo stesso che vive in noi, come dice Paolo: Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.

 

                                                               

153

 

Dalle "Lettere a Serapione sullo Spirito Santo" di sant'Atanasio.

Epistolae ad Serapionem. I,20. PG 26,577‑580.

 

Il mistero di Dio non è una realtà che si trasmette con dimostrazioni logiche, bensì mediante la fede e la preghiera autentica intrisa di rispetto. Se Paolo predicava la verità della croce salvifica non con un discorso sapiente. ma nella manifestazione dello Spirito e della sua potenza chi oserà parlare del mistero della Trinità?

La Scrittura ci offre così degli esempi, per cui è possibile parlare della Trinità in modo semplice e sicuro e credere che unica è la santificazione che, venendo dal Padre, mediante il Figlio, si compie nello Spirito Santo.

Come il Figlio è l'unigenito, così anche lo Spirito, dato e mandato da parte del Figlio, è uno e non molteplice o uno tra i molti, ma egli solo è Spirito. Se il Figlio, il Verbo vivente, è uno, così una, perfetta e piena dev’essere la sua energia vivente, santificatrice e illuminatrice, che è suo dono. Essa è detta procedere dal Padre, perché rifulge; ed è inviata e data dal Verbo, il quale appunto, come noi professiamo, è dal Padre.

Certo, il Figlio è inviato dal Padre, perché sta scritto: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito. Il Figlio a sua volta manda lo Spirito: Quando me ne sarò andato ‑ egli assicura ‑ vi manderò il Consolatore.

Il Figlio glorifica il Padre, quando dice: Padre, io ti ho glorificato. A sua volta la Spirito glorifica il Figlio, perché Cristo ha affermato: Egli mi glorificherà.

Il Figlio annunziò pure: Dico al mondo le cose che ho udite dal Padre. Lo Spirito a sua volta prende il Figlio, il quale infatti promise: Prenderà del mio e ve l’annunzierà.

Il Figlio venne nel nome del Padre, e riguardo allo Spirito Santo il Figlio dice: Il Padre lo manderà nel mio nome.

 

 

Letture della preghiera notturna dei certosini

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Anno C

Tempo Ordinario

Quinta Settimana

 

 

 Liberalità dell'amore di Dio

 

Nella sua generosità Dio ha voluto un essere che fosse capace di riceverlo (67). Egli ci chiama e ci promette la vita in abbondanza (62) purché ci impegniamo a lavorare nella sua vigna, cioè nel nostro cuore. (63) Però il regno dei cieli non è mercede di opere, ma grazia inaudita del Re (65). Che renderemo al Signore per tutto quello che ci ha donato? (66) La misura di amore Dio è di amarlo senza misura (64)

 

 

62

Lunedì

 

Dalla "Lettera alla monaca Xene" di Gregorio Palamas.

FG 40,13-14.

 

Il Padre ci riconcilia a sé mediante il Figlio, senza tener conto dei nostri peccati, e ci chiama non in quanto dediti a opere cattive, ma come oziosi. L'ozio, per altro, è peccato, e anche di una parola oziosa dovremo rendere conto. Però, passando sopra ai peccati commessi in precedenza da ciascuno, Dio chiama ancora e ancora.

Ma chiama a far che cosa? A lavorare nella vigna, cioè per i tralci ovvero per noi stessi, poi - incomparabile grandezza d'amore per gli uomini ‑ ci promette e ci dà la ricompensa delle fatiche che sosteniamo per noi stessi. Venite, dice, ricevete la vita eterna che io ho pagato generosamente, e vi pago, come debitore, il prezzo della fatica del viaggio e dello stesso desiderio di ottener la salvezza da me. Chi non è debitore del prezzo del riscatto a colui che l'ha riscattato da morte? Chi non rende grazie al datore della vita? Ma egli promette di dare la ricompensa ancor prima, e la ricompensa è indicibile. Egli dice: Sono venuto perché abbiano Ia vita e l'abbiano in abbondanza (Gv 10,10).

Che cosa significa 'in abbondanza'? Non solo l'essere e il vivere insieme con lui, ma divenirgli fratelli e coeredi. Allora questo 'in abbondanza' è la ricompensa data a quelli che accorrono alla vigna vivificante e sono chiamati 'tralci', faticano per sé stessi e la coltivano bene a proprio vantaggio. Che cosa fanno? Anzitutto tagliano quello che è superfluo e improduttivo, anzi è di ostacolo alla produzione di frutti degni del divino granaio. Giacché se uno non si fa tagliare e potare con grandissimo zelo, il germoglio del cuore, non produrrà mai frutti per la vita eterna.

 

 

63

Martedì

 

Dai "Discorsi sulla vigna dei Signore" di Ugo di san Vittore.

Serm. 15, PL 177.929s.

 

Fratelli, affatichiamoci per acquistare una buona coscienza, così come colui che suda per coltivare la vigna lo fa per ricavarne il frutto. Perciò, consideriamo il nostro cuore come un campo; reputiamo la buona volontà come la vite del Signore, i buoni pensieri come tralci. Zappiamo questo campo una prima, una seconda e una terza volta, come è scritto, con la triplice compunzione. Potiamo la vigna col taglio dei pensieri vani e inutili. Pieghiamola con l'umiltà del cuore, perché attraverso le buone azioni produca le foglie, col buon nome i fiori, con la buona coscienza i frutti.

 

Fratelli carissimi, se avremo lavorato così nella vigna del Signore, riceveremo il denaro promesso. Che cos'è questo denaro? Questo denaro è la vita eterna. Questo denaro rappresenta quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo: queste ha preparato Dio per coloro che lo amano (1 Cor 2,9). Questo denaro è il sommo Bene, nel quale è ogni bene e dal quale procede ogni bene. In esso è ogni bene per la pienezza, e da esso procede ogni bene per la generosità. Questo denaro è vedere Dio e gustarlo. Vederlo grazie alla contemplazione, gustarlo mediante l'amore. Gesù Cristo ci aiuti e si degni remunerare con questo denaro noi che lavoriamo in tale vigna.

 

 

64

Mercoledì

 

Dal "Trattato sull'amore di Dio" di san Bernardo.

Nn.15-16. PL 182,983s.

 

Che cosa renderò al Signore per tutti i beni che mi ha dato? (Sal 115,12) Nella sua prima opera egli mi ha dato sé stesso, nella seconda si è dato a me e dandosi, mi ha restituito a me. Dunque, dato, poi reso, io sono debitore a me stesso, e doppio debitore. Ma che cosa renderò a Dio per lui? Perché anche se potessi darmi mille volte, che sono io in confronto a Dio?

Riconosci prima di tutto in che misura Dio merita di essere amato da noi, o piuttosto quanto merita di esserlo senza misura. Infatti ci ha amati per primo di un amore così grande e gratuito, lui così grande e noi così piccoli quali siamo. Ecco perché ho detto che la misura di amare Dio è amarlo senza misura.

D'altra parte, poiché l'amore tendendo a Dio tende all'immenso, all'infinito (ché Dio è immenso e infinito), quali devono essere il limite e la misura del nostro amore? E se aggiungiamo che il nostro amore non è dato gratuitamente, ma come paga di un debito?

L'immensità ama; l'eternità ama, la carità sovraeminente ogni scienza, ama; è Dio che ama, la cui grandezza non ha termine, la cui scienza è senza limite, la cui pace supera ogni comprensione; e noi rispondiamo con misura? Sì, ti amerò, Signore, mia forza, Mio sostegno, mio rifugio e liberatore. (Sal 17,2.3)

E tutto ciò che si può dire di più amabile, da parte mia, ecco: ti amerò, o Dio, per il tuo dono.

 

   

65

Giovedì

 

Dalle Opere di san Marco l'asceta.

FG 1°,188ss

 

Il Signore vuole mostrare che ogni comandamento è dovuto e che l'adozione a figli è stata donata agli uomini per il suo sangue: perciò afferma: Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare (Lc 17,10). Per questo il regno dei cieli non è mercede di opere, ma grazia del sovrano preparata per i servi fedeli. Il servo non richiede la libertà come mercede, ma se ne rallegra sapendosi debitore e la riceve come grazia. Certuni non compiono i comandamenti ma credono di aver retta fede, altri che li compiono aspettano il regno come una mercede dovuta. Entrambi hanno deviato fuori dalla verità. Non è dovuta infatti nessuna mercede agli schiavi da parte del padrone, e a sua volta, chi non serve bene non otterrà la liberazione.

Quando senti la Scrittura dire che renderà a ognuno secondo le opere, non intendere opere degne della geenna o degne del regno, ma intendi che Cristo retribuirà ciascuno per le opere dell'incredulità o della fede in lui; non come mediatore d'affari, ma come il Dio che ci ha creati e redenti. Quanti siamo stati fatti degni del lavacro di rigenerazione, non presentiamo le opere buone per averne il merito, ma per custodire la purezza che ci è stata donata.

 

 

66

Venerdì

 

Dalle "Regole ampie" di san Basilio di Cesarea.

Quaest.2,2-4. PC 31,913ss.

 

Quale lingua potrebbe mettere nel dovuto risalto i doni di Dio? Il loro numero è così grande da sfuggire a qualsiasi elenco. La loro grandezza poi è tale e tanta, che già uno solo di essi dovrebbe stimolarci a ringraziarne senza fine il donatore. Ma c'è un favore che, pur volendolo, non potremmo in nessun modo passare sotto silenzio. Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza. Lo fornì di intelligenza e di ragione a differenza degli altri esseri viventi della terra. Gli diede la facoltà di deliziarsi della stupenda bellezza del paradiso terrestre. E finalmente lo costituì sovrano di tutte le cose del mondo. Dopo l'inganno del serpente, la caduta nel peccato e, per il peccato, nella morte e nelle tribolazioni, non abbandonò la creatura al suo destino. Dio non si contentò di chiamarci dalla morte alla vita, ma anzi, ci rese partecipi della sua stessa divinità; ci tiene in serbo una gloria eterna che supera in grandezza qualunque valutazione umana.  Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? (Sal 115,12) Egli è tanto buono da non esigere nemmeno il contraccambio; si accontenta invece che lo ricambiamo con il nostro amore. Quando penso a tutto ciò, rimango terrorizzato e sbigottito per timore che, a causa della mia leggerezza d'animo o di preoccupazioni da nulla, io possa affievolirmi nell'amore di Dio e diventi perfino motivo di vergogna e disdoro per Cristo.

 

67

Sabato

 

Dai "Discorsi" di Isacco della Stella.

Serm.25. S Ch 207,117-119.121.

 

Dio non è come noi. Per gli uomini spesso è fonte di agitazione o di vanità il fatto di non sapersi dominare: non sappiamo serbare per noi un'intima gioia, senza comunicarla a destra e a sinistra; tanto meno siamo capaci di tenerla segreta quanto più essa è intensa. Invece dipende dalla gratuità della generosità naturale, è proprio della natura della bontà, del bene gratuito e naturale ad un tempo di voler effondersi, dilagare e rendere gli altri partecipi gratuitamente di sé. Mai e poi mai la generosità potrà essere avara, la bontà potrà farsi gelosa, la carità potrà rimanere inattiva; e neppure la gioia non può restare nascosta o isolata.

Allo stesso modo l'indivisa Trinità ha creato dal nulla, con un atto indivisibile, quand'ella volle ciò che non cominciò mai a volere, un essere che fosse capace di riceverla; che potesse condividere la sua beatitudine e il suo diletto, cioè un essere ragionevole, ad immagine sua. Soltanto dal nulla la Trinità poteva trarre una prima creatura per pura generosità, come si è detto; non già per necessità inerente alla sua essenza, come taluni insegnarono, quasi non potesse farne a meno, ma per bontà naturale, unicamente perché lo volle.

La gioia, l'amore, il diletto, la soavità, la visione, la luce, la gloria: tutto ciò Dio vuole per noi, per questo ci ha fatti. Contempliamo ciò che è la bellezza somma, dilettiamoci in quella che è la Suprema soavità, lottiamo poi con ogni energia contro tutto quello che le si oppone o le si para dinanzi.

 

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