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Letture della preghiera notturna dei certosini

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Tempo Ordinario

 

Diciassettesima Domenica

 

 

9

Dal vangelo secondo Luca.

18.9-14

Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri: "Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano".

 

Dalle Omelie "Sull'incomprensibilità di Dio" di san Giovanni Crisostomo.

De incomprehensibili Dei natura , V,6-7.  PG 48, 745-747.

 

     Non è umiltà considerarsi un peccatore, dato che lo si è realmente. C'è umiltà, invece, quando uno, pur  consapevole di aver fatto molte belle cose, non concepisce una troppo alta stima di sé: quando, sebbene simile a Paolo al punto da poter affermare: Non sono consapevole di colpa alcuna, subito aggiunge: Non per questo sono giustificato o anche: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ecco in che cosa consiste l'umiltà: avere un basso concetto di sé, nonostante grandiose riuscite.

     Nel suo ineffabile amore per gli uomini, Dio non accoglie soltanto chi si umilia ma anche chi confessa generosamente i propri peccati: anzi, egli mostra favore e benevolenza verso chi ha tali disposizioni.

     Per imparare quanto sia bene non avere un'alta stima di sé, immagina due carri. Ad uno attacca la virtù e l'orgoglio, all'altro il peccato e l'umiltà; vedrai il carro tirato dal peccato superare quello della virtù, non per propria potenza, ma in forza dell'umiltà che lo accompagna. Invece l'altro rimarrà indietro, non per la debolezza della virtù, ma a causa della massa pesante dell'orgoglio.

 

10

 

     L'umiltà, per la sua immensa forza di elevazione, trionfa sulla pesantezza del peccato, ed è la prima a salire al cielo. L'orgoglio, a motivo del gran peso e della sua massa, riesce a sopraffare l'agilità della virtù e a trascinarla facilmente verso il basso.

     Riguardo a questo "tiro a due", più veloce, rammenta il fariseo e il pubblicano del vangelo. Il fariseo aggiogava insieme la virtù e l'orgoglio, perché diceva: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Quale pazzia! Non sazio di abbassare la natura umana in generale, il suo orgoglio insultava anche con molta arroganza il pubblicano in piedi vicino a lui.

     E questi che fece? Non respinse le ingiurie, non si irritò per il biasimo, ma accolse quelle parole con magnanimità. Il comportamento del nemico divenne per lui farmaco e guarigione; il biasimo si cambiò in elogio e l'accusa in premio.

 

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     La bellezza e i vantaggi dell'umiltà sono tali per cui uno non si sente più morsicato dalle ingiurie altrui e non diventa una belva quando i vicini lo coprono di oltraggi. Può persino, talvolta, derivarne un grande ed eccellente beneficio, appunto come nel caso del pubblicano. Egli, accettando le ingiurie, si liberò dai peccati, e per aver detto: Abbi pietà di me, peccatore, se ne andò giustificato a preferenza dell'altro.

     Le parole del pubblicano vincono le opere del fariseo; le parole del primo sono superiori alle azioni del secondo. Questi mise avanti la propria giustizia, i digiuni, le decime; l'altro disse semplici parole e fu liberato da tutte le sue colpe. Dio non ascoltò solamente le parole, ma vide il cuore con cui erano state pronunciate, e avendolo trovato umile e contrito, gli diede la sua misericordia e il suo amore.

 

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     In realtà, per preghiera non intendo quella che affiora solo sul labbro, ma quella che scaturisce dal fondo del cuore. Gli alberi dalle radici profonde, quand'anche i venti scatenino mille assalti, non sono schiantati, non vengono divelti, perché sono radicati saldamente ben dentro al terreno. Allo stesso modo, le preghiere che emergono dal fondo del cuore, svettano in alto sicure e nessun pensiero può assalirle  deviandone il corso. Ecco perché l'autore ispirato esclama: Dal profondo a te grido, o Signore. 

     Succede spesso che la gente sopporti faticosamente chi viene a gemere o a lamentarsi. Lo si respinge, si cerca di scansarlo.

     Dio, invece, non agisce così: ti fa avvicinare, anzi ti attira a sé. Appunto questo voleva dimostrare il Signore quando disse: Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.

 

 

 

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Tempo Ordinario

 

Diciassettesima Domenica

 

9

Dal vangelo secondo Luca.

18,9‑14

Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano dì essere giusti e disprezzavano gli altri: "Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano".

 

Dal Libro della perfezione di Martirio Sahdona.

Livre de la perfection,p.II,ch.10,§12.19‑22.64.66‑69. 0euvres, CSCO Lovanio,1965,t.III,52‑70.

 

Fratelli, smussiamo un pò la nostra arroganza e non stimiamoci superiori a quello che in realtà siamo.

A voler assumere atteggiamenti inadeguati di grandezza, corriamo il rischio di una condanna che ci butti giù brutalmente, magari a un livello ancora più basso.

Nel tempio il fariseo è accarezzato dal soffio della superbia, quando si vanta di essere giusto; poi, all'improvviso, una burrasca violenta gli strappa i frutti di giustizia e lo spoglia del suo fogliame, rendendolo scheletrito come un albero d'inverno.

Povera giustizia dell'uomo, se le si affianca la superbia diabolica! Guai alle sudate fatiche se, come un tarlo, le rosicchia la vanità. Povere opere buone e condotta virtuosa, se finiscono travolte dal turbine della vanagloria.

 

L'orgoglio,che ostenta a fior di labbro la propria virtù, assomiglia a un pericoloso malfattore che, dopo aver issato in cima al tetto il suo bottino, lo vantasse pubblicamente a gran voce. E' persino meglio peccare con umiltà che essere giusto, ma con ostentazione, perché l'umiltà può cancellare i peccati ed eliminare ogni macchia, mentre l'orgoglio è capace di cancellare la giustizia e farne scomparire definitivamente il ricordo.

Lo dimostra la parabola del fariseo e del pubblicano. Al primo la superbia distrugge la giustizia, mentre nel secondo l'umiltà cancella il peccato. 0 meglio, la vanteria degrada l'uno facendolo peccare, mentre l'umiltà dell'altro lo eleva giustificandolo.

Di fronte a un tale esempio, chi non cercherebbe di evitare la superbia e di odiarla?

 

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Gli uomini spirituali, i perfetti, non si vergognano di affibbiarsi davanti a tutti nomi disonorevoli, convinti che così si elevano e crescono.

Lo stesso vale per il fariseo e il pubblicano. Dicono entrambi la verità sul loro stato: il pubblicano si riconosce peccatore e il fariseo sciorina la sua giustizia. Ambedue fanno sparire quel che sono: l'uno elimina il suo vero stato di peccatore, umiliandosi davvero, e l'altro sopprime il suo vero stato di giusto con vanità autentica.

Perdono entrambi quello che possedevano e acquistano quello che non avevano. Il pubblicano si umilia e perde il suo peccato, acquistando la giustificazione; grazie al suo orgoglio, il fariseo perde la sua giustizia e si guadagna l'obbrobrio del peccato.

Se la giusta proclamazione di una verità sopra di se può nuocere o giovare, quanto di più la proclamazione falsa di una verità sopra di se potrà elevare o ledere colui che la formulerà!

Intendo dire questo: se siamo veramente peccatori e a torto ci prendiamo per giusti, esibendoci come tali,

la nostra perdizione sarà indescrivibile. Al contrario, se siamo davvero giusti, ma a torto ci stimiamo peccatori e lo proclamiamo, incommensurabile sarà l'altezza a cui ci eleverà colui che conosce tutti i segreti.

 

Ammettiamo di essere veri peccatori, che confessano apertamente il loro stato. Saremo giudicati tali da Dio, e anche davanti al prossimo godremo cattiva reputazione, ma tutto finirà lì.

Se invece ci travestiamo sotto una maschera di giustizia e gli altri ci crederanno gente per bene, alla condanna da parte di Dio si aggiungerà il guaio di essere stati indebitamente ricoperti di onori e di lodi.

Ammettiamo di essere davvero giusti, senza sbavature .di orgoglio o di millanteria, anzi di apparire agli occhi altrui come immuni da esagerata o falsa compiacenza di sé. Che ne ricaveremo? Unicamente la ricompensa per la nostra giustizia.

Se però questa giustizia fosse nascosta sotto un'umiliante parvenza di colpa, al punto da crederci veri peccatori che si rallegrano di subire affronti e umiliazioni, allora riceveremo doppia ricompensa: per la nostra giustizia e per i maltrattamenti indebiti.

 

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A questo punto, non ci resta che rinnegare la vanagloria e preferirle torti e affronti. Imitiamo i santi Padri dell'antica alleanza e quelli più vicini a noi del nuovo Patto. Seguiamoli per la via bassa

dell'umiltà, quand'anche occupassimo posti eminenti. Pur essendo un tantino giusti, stimiamoci da meno degli altri, soltanto poveri peccatori. Anche se possedessimo tutti i doni dello Spirito nutriamo la nostra anima con il pane dell'umiliazione, come sta scritto dei giusti, perché essa viva della vera vita grazie alla Parola di Dio.

Siamo impastati di fango, per cui non c'è da far caso di nostre presunte grandezze. Il ricordo delle colpe passate smorzi ogni pretesa giustizia. Di fronte alla realtà dei nostri difetti, ridimensioniamo la consapevolezza dei doni ricevuti, cioè ringraziandone Dio senza accaparracene la gloria Ripetiamo perciò con il salmista: Non a noi,Signore, non a noi, ma al tuo nome dal gloria. 1 (Sal 113,1 )

 

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