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Letture della preghiera notturna dei certosini

   Anno C

 

Tempo Ordinario

 

Ventisettesima  Domenica

 

 

VANGELO (Gv 6,41-51)

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo.

 

In quel tempo, i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?”.

Gesù rispose: “Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: ‘‘E tutti saranno ammaestrati da Dio’’. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna.

Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.

 

Il pane di vita

 

Per ricrearci Dio non si serve più di fango terroso, ma ci dona il suo corpo (283), sicché non siamo più di noi stessi, ma di colui che si unisce a noi (284).

Cristo si sorbisce le mie amarezze per darmi la dolcezza della sua grazia (285). Egli ha una fame immensa di me (286). Continua ad invitarmi a bere e a mangiare il pane della vita (287). L’eucaristia ci inabissa nella contemplazione di Dio. (288)

 

283

Lunedì

 

Dalla “Vita in Cristo” di Nicola Cabàsilas.

Lib.IV,cap.6. PG 150,616.

 

Cristo libera gli schiavi e li rende figli di Dio, perché, essendo lui stesso figlio e libero da ogni peccato, li fa partecipi del suo corpo, del suo sangue, del suo Spirito e di tutto ciò che è suo. In tal modo ricrea, libera e deifica, col nostro essere fondendo sé stesso: sano, libero e veramente Dio.

Cosi il sacro convito fa di Cristo, che è la vera giustizia, un bene nostro, più di quanto non siano nostri gli stessi beni di natura; sicché ci gloriamo di ciò che è suo, ci compiacciamo delle sue imprese come se fossero nostre e infine da esse prendiamo il nome, se custodiamo la comunione con lui.

Non ci è richiesto quindi nulla di umano; ma dobbiamo portare nell’anima ciò che è di Cristo, averlo con noi al momento della morte e, prima di ricevere le corone, mostrare in tutti i modi questa sapienza, questa ricchezza nuova, senza l’aggiunta di alcuna moneta falsa, poiché quello solo è il prezzo che si può pagare per il regno dei cieli.

Dio non ci ricrea della stessa materia con la quale ci ha creati; infatti fece il primo uomo prendendo il fango della terra, ma per la seconda creazione dà il proprio corpo e per rianimare la vita non si limita a fare l’anima più bella lasciandola però alla sua natura, ma versa il suo sangue nel cuore degli iniziati, facendo sorgere in essi la sua vita.

Se  allora, come dice la Scrittura, soffiò un alito di vita (Gen 2,7), ora ci comunica il suo Spirito: Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abba, Padre! (Gal 4,6).

 

284

Martedì

 

Dai “Capitoli naturali” di Niceta Stéthatos.

II Cent.,94-95. FG 3°,454.

Celebrando in sé quale sacerdote la nostra nuova creazione, il Verbo di Dio sacrificò sé stesso per noi attraverso la croce e la morte, e sempre offre il suo corpo incontaminato in sacrificio; lo pone ogni giorno per noi come convito perfetto a nutrimento dell’anima, quando cibandosi di esso e bevendo il suo sangue prezioso, diventiamo per la comunione - e lo percepiamo col cuore - migliori di quello che siamo. Ci mescoliamo a corpo e sangue e ci trasformiamo dal meno al più, doppiamente unificati al Verbo dalla duplice natura: al corpo e all’anima razionale, come a Dio incarnato e consustanziale a noi secondo la carne. Così non siamo di noi stessi, ma di Colui che si è unito a noi nella sua mensa immortale e fa sì che noi siamo per adozione ciò che egli è per natura.

Se dunque ci accostiamo a mangiare di questo pane e a bere di questo calice provati nelle fatiche delle virtù e già purificati dalle lacrime, il Verbo dalle due nature, con le sue due potenze, l’umana e la divina, si mescola con noi nella mitezza trasformandoci completamente in sé; infatti si è incarnato ed è consustanziale con noi nell’umanità e ci divinizza tutti con la parola della conoscenza e ci fa suoi conformi e fratelli, poiché è Dio e consustanziale al Padre.

 

285

Mercoledì

 

Dal “Commento al salmo 118” di sant’Ambrogio.

Nn.18.26-29. PL 15,1537-1539.

 

Non desidero che scenda su di me una pioggia di quaglie che prima ammiravo, e nemmeno la manna, che prima preferivo a tutti gli altri cibi; perché i padri ne mangiarono, ma ebbero ancora fame. Il mio è un cibo tale che se qualcuno ne mangerà non avrà più fame; è un cibo che non impingua il corpo, ma fortifica il cuore dell’uomo.

Prima ammiravo il pane del cielo; infatti sta scritto: Diede loro da mangiare un pone del cielo; (Gv 6,31) però non era quello il vero pane, era solo figura di quello futuro. Il Padre lo ha serbato per me il pane del cielo, quello vero. E’ disceso per me dal cielo quel pane di Dio, che dà la vita al mondo. Questo è il pane della vita; dunque, chi mangia la vita non può morire. Potrà mai morire chi si nutre della vita? Come potrà venir meno colui che possiede in sé una sostanza vitale?

Venite a lui e saziatevi, perché è pane; accostatevi a lui e bevete, perché è la sorgente; accostatevi a lui e sarete raggianti, perché è luce; venite a lui e sarete liberati, perché dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà (2Cor 3,17). Accostatevi a lui e sarete assolti, perché egli è la remissione dei peccati. Chiedete chi è costui? Ascoltatelo che dice: lo sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete (Gv 6,35).L’avete udito, l’avete visto, e non avete creduto in lui, per questo siete morti. Ma ora credete, per poter vivere. Dal corpo di Dio sgorgò per me una fonte eterna. Cristo beve le mie amarezze per donarmi la dolcezza della sua grazia.

286

Giovedì

 

Dallo “Specchio della salvezza eterna” di Giovanni Ruusbroec.

E. HELLO, Rusbrock 1’Admirable,pp.151-153.

Il primo segno dell’amore sta nell’averci Gesù dato la sua carne in cibo e il suo sangue in bevanda: ecco qualcosa di inaudito, che reclama ammirazione e stupore.

La caratteristica dell’amore è di dare sempre e sempre ricevere. Ora l’amore di Gesù è avido e munifico. Tutto quello che ha, tutto quel che è, lo dona; quanto noi abbiamo, quel che siamo, egli lo prende.

Il Signore chiede ben di più di quello che da noi siamo capaci di dare. Egli ha un’immensa fame. Ci entra fin nel midollo delle ossa, e quanto più il nostro amore lo lascia agire, con maggiore intensità lo gustiamo. Sì, insaziabile è la sua fame. Conosce bene la nostra povertà, ma non ne fa alcun caso e non ci dispensa di nulla. Si fa in noi da sé il suo pane, bruciando anzitutto col suo amore vizi, colpe, peccati. Poi, quando ci vede puri, arriva come a bocca spalancata. Vuol prendere la nostra vita per mutarla nella sua, la nostra piena di vizi, la sua colma di grazia e di gloria, preparata per noi purché non la rifiutiamo. Chi mi ama mi capirà... Il Signore ci fa il dono di una fame e di una sete eterne. A tale fame e sete dà in pasto il suo corpo e il suo sangue. Quando li riceviamo con spirito di intima dedizione, il suo sangue pieno di calore e di gloria scorre da Dio nelle nostre vene, il fuoco si accende nel nostro fondo e il gusto spirituale ci penetra anima e corpo, gusto e desiderio.

 

287

Venerdì

 

Dalle “Istruzioni” di san Colombano.

Istr.XII.PL80,254s.

Bisogna capire bene quello che si deve bere. Ve lo dica lo stesso profeta Geremia, ve lo dica la sorgente stessa: Hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, dice il Signore (Ger 2,13). E’ dunque il Signore,  il nostro Dio Gesù Cristo, questa sorgente di vita che  ci invita a sé, perché di lui beviamo. Beve di lui  chi lo ama. Beve di lui chi si disseta della parola di Dio; chi lo ama ardentemente e con vivo desiderio.

Beve di lui chi arde di amore per la sapienza.

Osservate bene da dove scaturisce questa fonte; poiché quello stesso che è il Pane è anche la Fonte, cioè il Figlio unico, il nostro Dio Cristo Signore, di cui dobbiamo avere sempre fame. E’ vero che amandolo lo mangiamo e desiderandolo lo introduciamo in noi; tuttavia dobbiamo sempre desiderarlo come degli affamati. Con tutta la forza del nostro amore beviamo di lui che è la nostra sorgente; attingiamo da lui con tutta l’intensità del nostro cuore e gustiamo la dolcezza del suo amore.

Il Signore è dolce e soave; sebbene lo mangiamo e lo beviamo, dobbiamo tuttavia averne sempre fame e sete, perché è nostro cibo e nostra bevanda. Nessuno potrà mai mangiarlo e berlo interamente, perché mangiandolo e bevendolo non si esaurisce, né si consuma. Questo nostro pane è eterno, questa nostra sorgente è perenne, questa nostra fonte è dolce.

 

288

Sabato

 

Dall “Etica” di Simeone il nuovo teologo.

Etica III,515-533.557-565. S Ch122,427-431.

Io sono il pane vivo che discende dal cielo (cf Gv 6,51). Cristo non ha detto ‘disceso’, ma ‘che discende’. Che significa ciò se non altro che egli scende senza posa e sempre, in quelli che ne sono degni? Egli si offre infatti anche adesso in ogni ora.

Poi il Signore stacca il nostro pensiero dalle realtà visibili, o meglio, attraverso di esse, ci eleva fino alla gloria invisibile della sua divinità sussistente personalmente. Infatti dice: Io sono il pane della vita (Gv 6,48).  Il fatto poi che insista su quel ‘discende’, può avere questa spiegazione: perché non ti venga il sospetto che in questo pane ci sia qualcosa di corporeo, perché tu non concepisca nulla di terrestre. Hai da scorgere con gli occhi della mente che questo pane così minuscolo, questa particola è cambiata in Dio stesso e diventa tutta quanta pane che discende dal cielo ed è autenticamente Dio, pane e bevanda di vita immortale.

Venite voi tutti che vi siete cibati di questo pane celeste e lasciamoci rapire in spirito fino alla vera vita in sé stessa, al terzo cielo, o meglio fino al seno della santissima Trinità; così dopo aver visto perfettamente e udito ciò che resta indicibile, dopo averlo assaggiato e toccato con le mani dell’anima, possiamo rivolgere a Dio, l’amico degli uomini, l’inno di riconoscenza dicendo: Gloria a te che sei apparso e ti sei degnato di rivelarti e farti vedere da noi!

 

 

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