Letture della preghiera notturna dei certosini |
Tempo Ordinario
Quattordicesima Settimana
VANGELO (Mt 7,15-20)
Dai
loro frutti li riconoscerete.
In
quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Guardatevi dai falsi profeti
che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro
frutti li riconoscerete. Si
raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono
produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un
albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo
produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere”. Non
chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui
che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.
Tale l’albero, tali i frutti
Svogliatezza o fervore, suscettibilità o rendimento di grazie (205), ecco i segni di una vita donata a Dio oppure al peccato. Purezza e conversione dei costumi (206, 207) conducono alla vera preghiera che è conformità alla volontà di Dio (208). I frutti dello Spirito Santo (209) e la carità (210) sono i frutti che Dio cerca in noi.
205 Lunedì
Dai “Discorsi ascetici” di Isacco di Ninive. Disc.12. Op.cit.,p.109.
Quando la trascuratezza inizia ad entrare furtiva nei
tuo cuore ed esso è condotto indietro nell’oscurità, quando la tua
casa sta per riempirsi di tenebre, ecco i segni premonitori che ciò sta
per accaderti: senti in te secretamente di essere malato nella fede, ti
volgi con frequenza verso il mondo visibile, diminuisce la tua fiducia;
arrivi persino a sentirti leso dal prossimo, sei turgido di rimproveri, la
tua bocca e il tuo cuore biasimano chiunque e qualsiasi cosa, persino
l’Altissimo. Invece, quando andrai in avanti, ecco i segni
inequivocabili che potrai leggere in te: avrai sempre e in ogni cosa la
forza della speranza, sarai ricco nella preghiera, non ti mancherà mai il
guadagrno spirituale in tutto quello che ti succederà; sentirai la
debolezza della natura umana sicché da un lato sarai premunito
dall’orgoglio, dall’altro eviterai di osservare i difetti altrui.
Infine, avrai il desiderio di uscire dal corpo, l’irresistibile invito
del tuo amore ti trascinerà nel secolo futuro verso cui siamo
incamminati. Scoprirai che tutte le sventure che ci capitano in
modo manifesto o segreto, sono date nella giustizia. Tutto in te sarà
compiuto con precisione; un’esattezza però, ben lungi dalla
presunzione. Tu renderai grazie, per tutto. Ecco i connotati dell’uomo vigilante che custodisce
sé stesso e dimora nella quiete, col desiderio di giungere alla
perfezione della vita monastica.
206 Martedì
Dal “Libro ascetico” di san Massimo il confessore. Nn.44-45. PG 90, circa 955. Non coltiviamo quei pensieri che tendono ad attenuare
i nostri peccati, e fanno presumere che ci siano stati perdonati, perché
il Signore mettendoci in guardia per essi, diceva: Guardatevi dai falsi
profeti, che vengono a voi in veste di pecora, ma dentro sono lupi rapaci
(Mt 7,15). Finché la nostra mente è sconvolta dal peccato, non
abbiamo ottenuto il perdono, perché non abbiamo ancora fatto degni frutti
di penitenza. Frutto di penitenza è la tranquillità dell’animo;
l’imperturbabilità è la distruzione del peccato. Non abbiamo ancora la
perfetta quiete, se a tratti siamo agitati dalle passioni; quindi non
abbiamo ottenuto il perdono completo delle colpe. Dal peccato originale siamo stati liberati col
battesimo; dal peccato commesso dopo il battesimo siamo liberati mediante
la penitenza. Pentiamoci dunque sinceramente affinché liberati dalle
passioni, otteniamo il perdono delle nostre cadute. Disprezziamo le cose
transitorie, nel timore che combattendo per esse con gli uomini, non
violiamo il precetto della carità e restiamo privi dell’amore di Dio. Camminiamo secondo lo spirito e non soddisferemo i
desideri della carne (cf Gal 5,16). Vigiliamo, siamo sobri;
riscuotiamoci d’ora in poi dal sonno della pigrizia. Emuliamo i santi
atleti del Salvatore; imitiamo le loro battaglie, trascurando le cose che
ci stanno alle spalle, protesi a ciò che ci sta davanti. Imitiamo la loro
corsa incessante, l’ardente desiderio, la padronanza della purezza, la
santità della continenza, la generosità della pazienza, la perseveranza
nella magnanimità, la clemenza della compassione; tendiamo alla
tranquillità della mansuetudine, al fervore dello zelo, alla sincerità
dell’amore, alla profonda umiltà, alla semplicità di un cuore povero.
207 Mercoledì
Dalla “Corrispondenza” di Barsanufio e Giovanni di Gaza. Lett.401. So1esmes, p.282.
Come ben sappiamo, se colui che digiuna mescola al
suo digiuno un po’ di volontà propria oppure ricerca la gloria umana e
ne fa il suo guadagno, quel digiuno è abominio davanti a Dio. Anche gli
Israeliti digiunavano, ma per aver commesso l’ingiustizia e compiuto la
volontà propria, incorsero nei rimproveri di Dio, per bocca del profeta
Isaia: Non è questo il digiuno che voglio (Is 58,6). Perciò, ogni opera buona che non è fatta per
l’amore di Dio e per lui solo, ma per volontà propria, è macchiata e
allontana il Signore. Ce lo insegna proprio la legge divina, perché sta
scritto: Non seminerai nella tua vigna semi di due specie diverse, non
ti vestirai con tessuto misto, fatto di lana e di lino insieme (Dt
22,9-11). Per comprendere che ci si riferisce alle opere, leggiamo
Qohelet che dice: In ogni tempo le tue vesti siano bianche (Qo 9,8).
Qui va inteso cioè che l’opera deve essere sempre pura. E quando vi si
mischia un po’ la volontà propria, l’opera è guasta e non piace a
Dio. Sicché il Signore diceva ai discepoli: Guardatevi dai falsi
profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci.
Dai loro frutti li riconoscerete (Mt 7,15-16). Sforziamoci perciò di
compiere l’opera di Dio per Dio solo, giacché se non sarà così, Dio
non ci chiamerà né ricorrerà a noi, perché l’opera da noi sia
compiuta. Infatti egli non manca di operai per realizzare la sua opera in
modo irreprensibile, secondo il suo volere. Siamo vigilanti nel compiere
il bene, per tema che, cedendo alla volontà propria, rendiamo inutile la
nostra fatica.
208 Giovedì
Dal “Trattato a Teodulo” di Esichio il presbitero. FG l°,232s.
Sta scritto che non chiunque mi dice: Signore,
Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del
Padre mio (Mt 7,21). Ma la volontà del Padre suo è questa parola che
ripetiamo in un salmo: Odiate il male voi che amate il Signore (Sal
96,10). Dunque, unitamente alla preghiera di Gesù Cristo,
odiamo anche i cattivi pensieri; ed ecco abbiamo fatto la volontà di Dio. Ma il Signore ha insegnato anche a noi inutili come bisogna lottare contro gli spiriti maligni. Cioè con umiltà, digiuno, preghiera e sobrietà. Lui, che non aveva bisogno di queste cose in quanto era Dio e Dio degli dèi. Dunque il primo moto della sobrietà è esaminare
frequentemente la fantasia, cioè l’assalto; perché satana non può
operare i pensieri senza la fantasia, né presentare menzogne
all’intelletto per ingannarlo. Altro modo è di avere il cuore
profondamente silenzioso sempre, e nell’esichia, lontano da ogni
pensiero. E pregare. Un altro è di supplicare con umiltà il Signore Gesù
Cristo per un aiuto continuo. Un altro modo è di avere nell’anima il
ricordo ininterrotto della morte. Tutte queste operazioni, carissimo,
impediscono come portinai l’accesso ai cattivi pensieri. E così
compiamo la volontà di Dio.
209 Venerdì
Dalle “Catechesi” di Teodoro di Tabenna. Catech.3.
Oeuvres de St Pacôme et de ses disciples, Lovanio,1956, CSCO
159,p.58.10-23.
Non dobbiamo essere trascurati, né dimenticare la
nostra salvezza; ma anzi rinnovarci in colui che ci dà la forza, Cristo
Gesù. Scambiamoci a vicenda l’affetto del nostro cuore, e portando la
croce di Cristo, seguiamolo in verità, nello spirito della promessa che
abbiamo fatto a lui, volontariamente e senza nessuna costrizione. Quel che Dio cerca in noi sono i frutti dello Spirito
Santo e occorre non essere negligenti in questo, perché è il punto su
cui saremo esaminati. Dunque cerchiamo di stimolarci a vicenda per saper
portare tutto il nostro frutto nelle cose che piacciono a Dio. Sappiamo che Dio si occupa di noi: lavoriamo per quel
che è necessario al corpo e sforziamoci di diventare un tempio santo di
Dio. Allora, fratelli miei fate tutto il possibile perché nessuno di voi
sia escluso, nel giorno in cui si manifesterà la gloria del Signore,
dall’assicurazione piena di gioia: Ancora un poco, infatti, un poco
appena, e colui che deve venire verrò e non tarderà; il mio giusto vivrà
mediante la fede (Eb 10,37-38). Non deve accadere che per la nostra
viltà o per il sopraggiungere di qualche tempesta, noi siamo infedeli
all’impegno che abbiamo liberamente abbracciato nella Comunità santa.
210 Sabato
Dall’Imitazione di Cristo. Lib. I,cap.15,2-3.
Senza la carità nessuna opera esteriore reca frutto;
al contrario, tutto ciò che vien fatto con spirito di carità, per poco
che sia e disprezzabile, diventa fruttuoso: perché Dio dà più peso a ciò
che ispira le nostre azioni che alle azioni stesse. Molto fa chi molto ama. Molta fa chi fa bene. E fa
bene colui che serve al bene di tutti più che alla propria inclinazione. Là dove noi vediamo carità, spesso c’è più egoismo che altrove; perché la perversa inclinazione della nostra natura, l’amor proprio, la speranza di essere ripagati e l’istinto della comodità raramente se ne stanno lontani da noi. Chi ha vera e perfetta carità non cerca sé stesso in nessuna cosa, ma desidera soltanto, in tutte le cose, la gloria di Dio: egli non invidia nessuno, perché non ama alcuna gioia personale; egli non vuol godere per conto proprio, bensì raggiungere la felicità con Dio, unico e massimo bene. Non attribuisce alcuna opera buona a nessuno, perché tutto riferisce a Dio, fonte prima di ogni cosa, e mèta beata dove eternamente riposa ogni anima santa. Basterebbe una scintilla di carità vera, per sentire piene di vanità tutte le realtà terrene. |
DICIOTTESIMA SETTIMANA DEL T.O.
VANGELO
(Lc 16,1-8) I
figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della
luce. In
quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “C’era un uomo ricco che
aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare
i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te?
Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere
amministratore. L’amministratore
disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie
l’amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. So io
che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato
dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. Chiamò
uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: Tu quanto devi al mio
padrone? Quello rispose: Cento barili d’olio. Gli disse: Prendi la tua
ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse a un altro: Tu
quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua
ricevuta e scrivi ottanta. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce”. Ebbene,
io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché,
quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne. Retto uso dei beni Per il monaco il retto uso dei beni consiste nel far opera di discernimento (211, 212). L’ideale di non possedere nulla in vista della gioia eterna e definitiva (213) va di pari posso con la sobrietà monastica (214). Per finire, la misura di tutto è l’amore! (215,216). 211 Lunedì
Dai “Discorsi” di san Bernardo. Sermo 88 De diversis, 1.2 PL 183,706-707. Vi sono due differenti operazioni dello Spirito
Santo: quella ch’egli produce in noi per il nostro bene, e quella che ci
comunica in vista del prossimo. Tuttavia, due grossi pericoli si annidano in queste
operazioni: non vanno condivise col prossimo quelle che ci sono date per
il nostro profitto e non ci riserveremo in modo esclusivo quelle che
riceviamo per il vantaggio altrui. Se infatti serbiamo soltanto per noi
quel che ci fu dato per l’utilità degli altri, manchiamo di carità;
con ragione ci potranno dire: Sapienza nascosta e tesoro invisibile: a
che servono l’una e l’altro? (Sir 20,30). E se vogliamo che i doni
di Dio ricevuti segretamente, diventino noti, invece di starcene paghi
perché siamo cari a Dio nel segreto del cuore, perdiamo l’umiltà e avrà
ragione a rimproverarci chi ci dirà: Che cosa mai possiedi che tu non
abbia ricevuto? (1Cor 4,17). Quindi, siamo esposti per ogni versante a
perdere l’umiltà o la carità. Come poi potremo salvarci senza tali virtù? Perciò
ecco l’orientamento a cui attenerci perché i doni dello Spirito Santo
ci siano di vantaggio. Anzitutto lavoriamo a nutrire in pieno il cuore di
sentimenti di compunzione e di altre virtù; poi, se per il favore dello
Spirito, riceviamo altri doni in abbondanza, per esempio sapienza o
scienza, avremo cura di comunicarli ai fratelli. Otterremo allora dallo Spirito Santo il dono che
viene detto discernimento degli spiriti: esso consiste nel serbare per noi
quanto ci conviene e nel comunicare al prossimo quanto ci è dato per la
sua utilità. 212 Martedì Dalla “Lettera d’oro” di Guglielmo di S.Teodorico. Nn.83,84.87.
Sansoni, 1983, pp.115-117. Tu domandi che cosa fare, di che occuparti?
Anzitutto, senza parlare del tempo riservato al sacrificio quotidiano
della preghiera o all’esercizio della lettura, non bisogna sottrarre
all’esame, all’emendamento, al riequilibrio della coscienza la parte
del giorno che loro spetta. Poi bisogna attendere al lavoro, anche a
quello manuale che venisse prescritto, non tanto a causa della piacevole
attenzione cui per un istante chiama lo spirito, quanto a causa del
piacere che esso conserva e nutre per gli esercizi spirituali. Vi si
abbandoni per un momento l’anima, senza rilassarsi: onde facilmente, non
appena le sembri cosa opportuna ritornare a sé stessa, essa se ne liberi,
senza contestazione da parte di una volontà troppo impegnata e senza il
rischio di esserne contaminata per il piacere provato o per le immagini
del ricordo. Comunque sia, l’anima seria e previdente, si adatta a
qualsiasi occupazione e non vi si disperde, ma se ne vale per raccogliersi
meglio in sé stessa. Avendo sempre di mira non tanto quello che fa,
quanto l’intenzione che la fa agire, essa tende al fine di ogni
perfezione. 213 Mercoledì Dalla “Scala del paradiso” di Giovanni Climaco. 16° Grado,12-14.17-20. Op.cit.,pp.179.180. Un monaco che non possiede nulla, è padrone del
mondo. Egli ha affidato a Dio tutti i suoi crucci, e mediante la fede ha
acquistato tutti gli uomini per servi. Non parla agli altri delle sue
necessità, e riceve tutto quello che gli viene come dalla mano di Dio. Il lavoratore spirituale che non ha possessi, è
figlio del distacco e non bada a quello di cui dispone, quasi ciò non
esistesse. Quando si ritira in solitudine, tutto gli è come fosse
pattume. Però qualora si rattristi perché manchi di questo o di quello,
vuol dire che non è ancora senza possesso. L’uomo che non ha possessi
è puro durante la preghiera, mentre l’amico del guadagno prega davanti
alle immagini degli oggetti materiali. Chi ha pregustato le realtà dell’alto, sprezza
facilmente quelle di quaggiù. Ma chi non ne ha mai sentito il sapore,
trova la gioia in quello che possiede. Chi poi rinuncia ad accumulare
beni, ma secondo una tattica sragionevole, soffre doppio danno: non gode
dei beni presenti e sarà privato di quelli futuri. Non darti l’aria, o monaco, di aver meno fede degli
uccelli: quelli infatti non si preoccupano di nulla e non ammassano mai. E’ grande colui che per amore rinuncia a quanto
possiede, ma santo è chi rinnega la volontà propria; il primo riceverà
il centuplo sia in denaro, sia in grazie, ma il secondo diventerà erede
della vita eterna. 214 Giovedì Dai “Detti” dei Padri del deserto. Nau 464 e 592,1-2. REGNAULT,pp.73.115. Uno dei santi ha detto: E’ impossibile all’uomo
finché ha piacere per questa vita, di sperimentare la dolcezza di Dio; e
all’inverso, colui che gusterà la dolcezza di Dio, odierà una volta
per tutte i piaceri terrestri. Sta scritto infatti nel vangelo: Nessuno
può servire a due padroni (Lc16,13). Occorre perciò che l’amante
di Dio si schieri in tutte le sue azioni dalla parte di Cristo. Un fratello domandò: Che cosa vuol dire questa parola, Padre? L’anziano rispose: Vuoi sapere come ci si debba mettere dalla parte di Cristo in ogni cosa? Sta’ a sentire: quando ti tocca pane bianco, lascialo ad un altro e tu mangia quello nero per Cristo. Se quando sei coricato, hai freddo, sopportalo, dicendo: Altri non si coricano del tutto. Se vieni insultato, resta zitto, dicendoti: Per Cristo, perché lui pure ha subito ingiurie per noi. In una parola: in ciascuna delle tue azioni, metti un
po’ di sofferenza, sia per mangiare, sia per dormire, sia per lavorare.
Vivi sempre con umiltà pensando al modo con cui vissero i santi, perché
l’ora della morte ci trovi nella fatica e nella penitenza: attraverso
tali mezzi speriamo di ottenere la quiete eterna. 215 Venerdì Dalle “Catechesi” di Simeone il nuovo teologo. Catech.IX,S
Ch104,pp.115-117. Per te Dio è
diventato uomo, e povero. Anche tu devi divenire povero a tua volta come
lui, tu che in lui credi. Povero è Dio secondo l’umanità, povero sei
anche tu secondo la divinità. Vedi un po’
ora come tu lo nutrirai, osserva da vicino. Egli si e impoverito, perché
tu t’arricchissi, e potessi aver parte ai tesori della sua grazia. Per
questo ha assunto una carne, perché tu fossi partecipe della sua divinità.
Perciò quando disponi te stesso in vista di accoglierlo, si dice che egli
sarà accolto da te. Quando a causa di ‘lui patisci la fame e la sete,
ciò vale per lui come cibo e bevanda. Mi domandi come questo sia
possibile? Perché con tali opere e azioni, e altre simili, purifichi il
tuo cuore e ti sleghi dai ceppi delle passioni e dall’inedia; e colui
che così ti raccoglie, applicando a sé tutto quello che ti riguarda, il
Dio che desidera renderti dio così come lui si è fatto uomo, tutto quel
che tu fai per lui, lo conta come fatto a sé e ti dice: ‘Ciò che fai a
questa piccolina che è la tua anima, tu lo fai a me.’ Dimmi dunque: per
che tipo di opere coloro che vissero nelle caverne e negli anfratti dei
monti piacquero a Dio? Sicuramente soltanto per la carità, la penitenza e
la fede; abbandonando il mondo intero per seguire lui solo, attraverso la
penitenza e le lagrime l’hanno accolto e ospitato, hanno saputo nutrire
la sua fame e spegnere la sua sete. 216 Sabato Dalla “Lettera sulla discrezione” di un anonimo inglese dei sec. 14°. La vie
spirituelle,nov.1925,236-238. Il silenzio o la conversazione, il digiuno o il
cibarsi, la solitudine o il vivere con gli altri, non sono di per sé il
nostro vero fine. Per taluni sono mezzi per conseguire il vero fine, purché
siano impiegati bene e con discrezione; altrimenti sono ostacoli più che
aiuti. Quando ti si presentano due possibili opposte azioni,
prendile una in ciascuna mano e scegli quella più nascosta; quindi potrai
farla o no, a tua gradimento e con piena libertà di spirito, senza nessun
senso dà colpa. Mi domanderai che si cela in tutto questo. Ti
risponderò: Dio, Dio per il quale devi tacere - se occorre restar in
silenzio- e per il quale devi parlare, se così conviene: Dio per cui devi
digiunare o no, vivere in società o solitario, secondo il caso. Il silenzio non è Dio, la parola non è Dio, e così
pure le pratiche opposte. Dio è in esse nascosto, e non può essere
scoperto da nessuna operazione dell’anima se non mediante l’amore del
tuo cuore. L’intelligenza non può conoscerlo né il pensiero trovarlo;
non può raggiungerlo il ragionamento, ma può essere amato e scelto con
la sincera volontà amante del cuore. Sceglilo e sarai silenzioso anche parlando; parlerai
rimanendo zitto. E così via. La scelta di Dio per mezzo dell’amore,
realizzata mettendo da parte ogni altra cosa, la ricerca di lui nella
volontà sincera d’un cuore puro, attraverso gli esercizi che si offrono
alla nostra ricerca spirituale, ecco il modo migliore per cercar Dio. Naturalmente parlo di un’anima contemplativa. Poco
importa se in tale ricerca essa non vede nulla che possa essere percepito
dall’occhio della ragione. Basta che Dio sia quaggiù il tuo amore e la
tua sola preoccupazione, la scelta e il fine del cuore, anche se poi
durante tutta la vita nulla vedi con lo sguardo dell’intelletto. |
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