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Letture della preghiera notturna dei certosini

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Anno A

 

Tempo Ordinario

 

Sedicesima Settimana

 

 

201

 

Dalla Lettera ai Fratelli di Mont‑Dieu di Guglielmo di Saint‑Thierry.

249.251. Testo latino in La Lettera d'oro, Sansoni, Firenze, 1983,230. 232.

 

Quando il pensiero si sofferma su ciò che è di Dio e tende a lui, e la volontà progredisce fino a divenire amore, subito per la via dell'amore in essi è infuso lo Spirito Santo, lo Spirito della vita. Egli tutto vivifica, venendo in aiuto alla debolezza di colui che pensa, sia nella preghiera, sia nella meditazione, sia nello studio.

E subito la memoria si fa sapienza: mentre assapora soavemente i beni del Signore, presenta all'intelletto ogni pensiero su di essi, affinché sia trasformato in sentimento d'amore.

A sua volta, l'intelligenza che sta pensando diventa contemplazione d'amore; dando a tutto ciò la forma di certe esperienze di soavità spirituale e divina, cattura mediante tali beni lo sguardo del soggetto pensante, per cui subentra la gioia del godimento.

Tuttavia, questo modo di pensare a proposito di Dio non dipende dall'arbitrio di colui che pensa, ma dalla grazia di colui che dona. In altre parole, lo Spirito Santo, che soffia dove vuole, quando vuole, come vuole e su chi vuole, soffia in tale direzione.

Ma sta all'uomo preparare incessantemente il proprio cuore; a tal scopo, egli deve sciogliere la libertà dai vincoli degli affetti estranei, la ragione o l'intelletto dalle preoccu­pazioni, la memoria dalle attività oziose o da quelle freneti­che, e talvolta anche da quelle necessarie.

Per conseguenza, nel giorno scelto dal Signore e nell'ora del suo beneplacito, appena egli avrà udito la voce dello Spirito che soffia, subito tutte le disposizioni che formano il pensiero accorrano immediatamente tutte assieme e nella liberta, cooperino al bene e divengano come un'unica cosa per la gioia di colui che pensa; intanto la volontà pre­senta un puro sentimento d'amore per la gioia del Signore; la memoria poi offre una materia fedele e l'intelletto un'e­sperienza soave.

 

 

202

 

Dalla Lettera ai Fratelli di Mont‑Dieu di Guglielmo di Saint‑Thierry.

268‑271.Testo latino in La Lettera d'oro, Sansoni, Firenze,1983,240. 242.

 

A colui che è eletto e amato da Dio, di quando in quan­do, si mostra un certo quale bagliore del volto di Dio, come un lume racchiuso fra le mani che appare e scompare secon­do il volere di chi lo regge. Così, attraverso quanto gli e concesso vedere come di passaggio e a sprazzi, l'animo si infiammerà d'ardore per il pieno possesso della luce eterna e per l'eredità della piena visione di Dio.

E affinché in qualche misura sia consapevole di ciò che gli manca, non è raro che la grazia come di striscio abbagli il senso di colui che ama, lo strappi a se stesso, lo rapisca nel giorno eterno, dal tumulto delle cose alle gioie del silenzio. Là, per un momento, per un breve istan­te, l'Essere sussistente, in tutta la sua misura, si scopre a lui così come è; talvolta anche lo trasforma a sua immagi­ne, affinché anch'egli sia, nella misura che può, ciò che lui è.

Quando poi l'eletto di Dio abbia imparato la distanza che separa il puro dall'impuro, viene restituito a se stesso e rinviato a purificare il cuore per la visione, a preparare l'animo alla somiglianza con Dio. Così, se gli capiterà di essere nuovamente ammesso a simile grazia, sia più puro per vedere e più stabile per godere.

Non si coglie mai la misura dell'imperfezione umana come nella luce del volto di Dio, nello specchio della visione divina. Là, nel giorno eterno, alla vista sempre più chiara di ciò che gli manca, l'animo corregge di giorno in giorno, grazie alla somiglianza che acquista, tutto ciò in cui aveva mancato per dissomiglianza, avvicinandosi per somiglianza a colui dal quale per dissomiglianza si era allontanato. In questo modo una somiglianza più manifesta si accompagna sempre ad una più manifesta visione.

 

  

203

 

Dalla Lettera ai Fratelli di Mont‑Dieu di Guglielmo di Saint‑Thierry.

291‑292. Testo latino in La Lettera d'oro, Sansoni, Firenze,1983,254.

 

Quando l'anima cerca di pensare la propria somiglianza con Dio, per prima cosa conformi e disponga il suo pensiero in modo da precludersi qualunque rappresentazione corporea. Dio non va neppure pensato come un oggetto circoscrivibile in un luogo, al modo dei corpi, e neanche come qualcosa di soggetto a mutamento, al modo degli esseri spirituali.

Infatti, le realtà spirituali differiscono dalla natura e dalla qualità dei corpi, a misura che sono lontane da ogni possibilità di essere circoscritte in un luogo. Ma le realtà divine si elevano di tanto sopra tutto quello che è corporeo e spirituale, di quanto, sfuggendo ad ogni legge di luogo o di tempo e ad ogni sospetto di mutamento, permangono immutabili ed eterne, nella loro immutabile ed eterna beatitudine.

Come l’animo discerne le realtà corporee tramite i sensi del corpo, così non può discernere se non mediante se stesso ciò che è razionale o spirituale. Ma per le realtà divine non può cercarne o attenderne la comprensione se non da Dio.

Certo, è lecito e impossibile per l’uomo dotato di ragione pensare e indagare sull’una o sull’altra delle realtà che riguardano Dio, per esempio sulla dolcezza della sua bontà, sulla potenza della sua forza, e così via. Ma Dio stesso, l’Essere che è quello che è, non può assolutamente esser pensato, se non secondo quanto può raggiungerlo il senso dell’amore illuminato.

 

 

204

 

Dalla Lettera ai Fratelli di Mont‑Dieu di Guglielmo di Saint‑Thierry.

293-295. Testo latino in La Lettera d'oro, Sansoni, Firenze,1983,254. 256

 

Dio va creduto e, nella misura in cui lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza, va pensato come una sorta di vita eterna, come essere vivo e vivificante; come essere immutabile che, pur senza nessun cambiamento, rende tutto mutevole; come essere intelligente, che crea ogni intelletto e ogni essere intelligente.

Dio va creduto e pensato come la sapienza che rende tale ogni saggio; come verità fissa, stabile, intramontabile, da cui viene all’esistenza tutto ciò che procede nel tempo.

La sua vita è la sua essenza, poiché la sua natura e la sua vita sono lui stesso che vive di per sé. Egli è la stessa divinità, eternità, grandezza, bontà e forza che in se stessa esiste e sussiste; in forza della sua natura non soggetta a luogo, egli oltrepassa ogni limite spaziale e in forza della sua eternità ogni tempo che possa esser racchiuso dalla ragione o dal pensiero.

Egli è più lontano e più al di là del vero, di quanto possiamo percepire con qualsiasi tipo di sensazione; e, comunque, lo raggiunge in modo più certo il senso di un amore umile e illuminato che un qualsiasi pensiero della ragione, e sempre in modo più certo il senso di un amore umile e illuminato che un qualsiasi pensiero della ragione, è sempre il modo migliore di quando viene pensato per quanto sia già meglio pensarlo che parlarne.

Questa è la somma essenza da cui ogni essere procede; questa è la sostanza somma che non è soggetta alle categorie del linguaggio, ma è il principio casuale in sé sussistente di tutte le cose. In lui il nostro essere non muore, l’intelletto non era, l’amore non viene offeso. Dio è l’oggetto eterno della nostra ricerca perché con più dolcezza lo si trova; e con tanta dolcezza viene trovato, perché lo si cerca con ancora più diligenza.

 

205

 

 

Dalla Lettera ai Fratelli di Mont‑Dieu di Guglielmo di Saint‑Thierry.

296-300. Testo latino in La Lettera d'oro, Sansoni, Firenze,1983,256. 258.

 

 

L’essere ineffabile non può essere visto se non in un modo ineffabile; perciò chi lo vuole vedere, purifichi il proprio cuore.

Nel sonno non possiamo cogliere di lui alcuna rassomiglianza, né da vegli una qualche forma sensibile.

Nessuna ricerca della ragione può riuscire a vederlo o a coglierlo, ma soltanto l’umile amore di un cuore puro.

Questo è infatti quel volto di Dio che nessuno può vedere se vive con il mondo; questa è la bellezza che aspira a contemplare chiunque desideri amare il Signore suo Dio con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima, con tutta la sua mente, con tutte le sue forze. A questo, d’altronde, egli non cessa di stimolare il suo prossimo, se lo ama come se stesso.

Se avviene che uno sia ammesso a contemplare il volto di Dio, egli percepisce senz’ombra di dubbio, al lume della verità, la grazia che lo ha prevenuto.

Quando poi ne è allontanato, la cecità in cui annaspa gli fa capire che la sia impurità è incompatibile con la purezza di Dio. E se ama, gli è dolce piangere e non senza molti gemiti si vede costretto a tornare nella propria coscienza.

Farci un’idea di questo Essere ineffabile è qualcosa di fronte a cui siamo assolutamente impari; ma ci perdona colui che noi amiamo e del quale confessiamo di non essere capaci né di parlarne né di pensarlo degnamente. Tuttavia, proprio l’amore, o l’amore del suo amore,  si spinge e ci attira a fare di lui l’oggetto dei nostri discorsi e dei nostri pensieri.

A colui che “pensa” spetta dunque di umiliarsi in ogni cosa e di glorificare in se stesso il Signore suo Dio.

 

206

 

Dal Trattato sull’amicizia di Elredo di Rievaulx.

De spiritali amicitia, I, 20 – 23. PL 195,663.

 

L’amico è in qualche modo il guardiano dell’amore o, se vuoi, il custode dell’anima stessa. E bisogna in realtà che il mio amico custodisca il mio affetto e la mia stessa anima, poiché ne conserverà i segreti con fedele silenzio; come egli è possibile, correggerà i difetti che nota e saprà tollerare le imperfezioni; condividerà gioia e pene, sentendosi coinvolto in tutto quello che riguarda l’amico.

L’amicizia è perciò quella virtù che lega gli animi con una dolce alleanza di predilezione e fa unità del molteplice. Si spiega così che persino i filosofi di questo mondo non abbiano catalogato l’amicizia tra i sentimenti fortuiti e passeggeri, ma tra i valori che sono eterni.

Fa loro eco Salomone nei Proverbi: Un amico vuole bene sempre, facendo risaltare che l’amicizia, quand’è vera, è eterna. Se invece un bel giorno cessa, vuol dire che non era genuina, neppure quando sembrava lo fosse.

Non è mai stato amico che ha potuto far del male all’altro una volta che lo ha accolto nella sua amicizia. Neppure direi che abbia assaporato le gioie dell’amicizia autentica chi la rompe se è offeso. Il vero amico continua ad amare in qualsiasi circostanza.

 

 

 

Letture della preghiera notturna dei certosini

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Anno C

 

Tempo Ordinario

 

Sedicesima Settimana

 

VANGELO (Mc 8,1-10)

Mangiarono e si saziarono.

 

In quei giorni, essendoci di nuovo molta folla che non aveva da mangiare, Gesù chiamò a sé i discepoli e disse loro: “Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare. Se li rimando digiuni alle proprie case, verranno meno per via; e alcuni di loro vengono di lontano”.

Gli risposero i discepoli: “E come si potrebbe sfamarli di pane qui, in un deserto?”. E domandò loro: “Quanti pani avete?”. Gli dissero: “Sette”.

Gesù ordinò alla folla di sedersi per terra. Presi allora quei sette pani, rese grazie, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero; ed essi li distribuirono alla folla. Avevano anche pochi pesciolini; dopo aver pronunziata la benedizione su di essi, disse di distribuire anche quelli.

Così essi mangiarono e si saziarono: e portarono via sette sporte di pezzi avanzati. Erano circa quattromila. E li congedò.

Salì poi sulla barca con i suoi discepoli e andò dalle parti di Dalmanuta.

Il pane del deserto

Per vivere in Cristo, occorre mangiarlo avidamente, in fretta (199). Questo pane pieno di delizie (200) nutre il gran mistero dell’unione di Dio con l’anima (201). L’eucaristia, che ci sostiene, ci guida e ci purifica (202), è il cibo del popolo di Dio (204), segno efficace dell’unità del Corpo mistico di Cristo (203).

199

Lunedì

 

Dall’opera “Il sacramento dell’altare” di Baldovino di Ford.

S Ch 94,453.

Quelli che vivono piamente in Cristo mangiano sempre questo cibo che è Cristo, perché sempre proprio da lui ricevono di poter vivere in lui. A tutti questo cibo è necessario per vivere nella giustizia. E poiché non è lecito indugiare per convertirsi alla giustizia né avanzare mollemente quando uno ha cominciato a convertirsi, ci viene detto: Lo mangerete in fretta (Es 12,11). Perciò chi ancora non vive di Cristo né in Cristo, deve senza esitazioni cominciare a vivere secondo Cristo, e ad averlo così in cibo. Chi invece già vive in Cristo, deve altrettanto affrettarsi a mangiare, tendere cioè avidamente al progresso. Quando Cristo è mangiato nel sacramento dell’altare, occorre cibarsene in fretta. Non che si debbano celebrare i riti della messa frettolosamente, con precipitazione, senza gravità e rispetto. Ma quando si giunge al momento della comunione, bisogna assumere senza ritardi quello che va mangiato con grande desiderio. Infatti c’è da prendere questo cibo come una cosa che si brama con intensità, a cui si anela avidamente. Chi si accosta alla comunione deve prenderla come l’affamato addenta un tozzo di pane, come chi muore di sete accosta le labbra alla bevanda; insomma come uno che non può tollerare di attendere e di vedere dilazionata una grazia così grande.

200

Martedì

 

Dalle “Omelie” attribuite a Macario l’egiziano.

Hom. IV, 11-13. PGL 19,1184-1185.

Per la sua indicibile bontà e inconcepibile misericordia Dio muta, rimpicciolisce e rende simile sé stesso alle anime fedeli, sante e degne, corporeizzandosi secondo la loro capacità; egli vuole che l’Invisibile possa essere visto, l’Intoccabile possa essere toccato, secondo la natura della sottigliezza dell’anima. In questo modo essa potrà concepire la soavità divina e godere per esperienza diretta dell’ineffabile godimento della bontà della luce. Solo si sforzi per divenire cara e gradita a Dio, e per esperienza e percezione diretta vedrà beni celesti e un diletto inesprimible: insomma l’infinita ricchezza della divinità. In altri termini, l’anima sarà ammessa a percepire quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo (1Cor 2,9), cioè lo Spirito del Signore, che diventa riposo dell’uomo degno, letizia, gioia e vita eterna.

Il Signore infatti si corporeizza anche in cibo e bevanda, come è scritto nel vangelo: Chi mangia di questo pane, vivrà in eterno (Gv 6,35), perché egli possa riposare indicibilmente e riempire l’anima di allegrezza spirituale, giacché è detto: Io sono il pane della vita (Gv 6,38). Penso che Mosè per tutto il tempo, durante il digiuno dei quaranta giorni sulla montagna, accostandosi a quella tavola spirituale, si deliziava e godeva. A ciascuno dei santi, dunque, il Signore si mostrò come volle, per farlo riposare, salvarlo e condurlo alla presenza di Dio.

 

201

Mercoledì

 

Dall’ “Etica” di Simeone il nuovo teologo.

S Ch 122, 233-237. 241-243.

Cristo, donando sé stesso a noi in comunione, ci dà della sua propria carne e delle sue ossa che mostrò agli apostoli dopo la risurrezione, dicendo: Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho (Lc 24,39). Proprio per questo egli ci offre da mangiare; grazie a questa comunione ci rende una sola cosa con lui. Davvero, come dice san Paolo, questo mistero è grande (cf Ef 5,32), e tale esso resterà, perché la comunione e l’unione, l’intimità e la parentela che attua la donna con l’uomo e l’uomo con la donna sono qui attuati in modo degno di Dio; essi trascendono pensiero e parola, perché autore ne è il padrone e il creatore dell’universo insieme con tutta la Chiesa. Dio si unisce a lei come alla sua unica sposa, in modo immacolato e più che ineffabile. Dimora inseparabile, indistaccabile da lei, vivendole insieme e avvolgendola di amore e di tenerezza. Dal canto suo, la Chiesa non può vivere la vita vera e incorruttibile se non è nutrita dal suo Signore ogni giorno con il pane sostanziale; grazie ad esso la vita e la crescita fino all’età dell’uomo perfetto, fino alla misura del completo compimento, sono garantiti a tutti quelli che lo amano.

Bisogna infatti che al di là del nostro mondo, la pienezza del mondo della Chiesa, della Gerusalemme celeste, sia raggiunta e la pienezza del corpo di Cristo possa realizzarsi in quelli che Dio ha predestinato a diventare conformi all’immagine del Figlio suo.

 

202

Giovedì

 

Dalla “Vita in Cristo” di Nicola Cabasilas.

Lib.4°,Cap.6°. PG 150,609.

Se anche negli altri misteri ci è dato di trovare Cristo, in essi però incominciando a riceverlo ci prepariamo a poter essere con lui; invece nell’eucaristia ci è già concesso di possederlo e di essere uniti a lui perfettamente. Quale altro mistero ci dà di essere un solo corpo e un solo Spirito con lui, e di dimorare in lui e di averlo dimorante in noi? Perciò, io credo quando Cristo dice che la beatitudine dei giusti è un festino in cui egli serve a mensa (cf Lc 12,39).

Così dunque il pane di vita è premio. Ma quelli che ricevono il dono calcano ancora la terra quali viandanti, si coprono di polvere, inciampano e hanno da temere la mano dei ladri; perciò il pane di vita, com’è giusto, provvede alle loro necessità presenti; sostiene le forze, guida e purifica, finché non pervengano in quel luogo dove, secondo il detto di Pietro, è bene per l’uomo di stare (cf Lc 9,33); è quello il luogo dove non c’è più posto per niente altro, ma per i santi che ormai dimorano in quella regione pura dalle cure mondane, e Cristo solo puramente unito ad essi è la loro corona.

Ecco dunque: in quanto forza purificante destinata a questo dal principio, Cristo libera da ogni macchia: in quanto partecipe delle nostre lotte, di cui fu guida come nostro fratello primogenito, avendole affrontate per primo, dà forza contro i nemici; e, in quanto è anche premio, non si ottiene senza sforzo.

203

Venerdì

 

Dall’opera “Il sacramento dell’altare” di Baldovino di Ford.

II Parte,cap.4,3. S Ch 94,365ss.

Un solo pane è impastato di moltissimi chicchi; un solo corpo è composto di parecchie membra. Benché siamo numerosi, grazie all’amore del prossimo siamo un solo pane, e grazie all’amore di Dio un solo corpo. Un solo pane per Dio che gode dell’amore fraterno con cui ci amiamo gli uni gli altri, e per cui Dio, in certo modo, si nutre di noi. Siamo anche un solo pane gli uni per gli altri, dato che il nostro amore scambievole ci è reciproco conforto e mutua refezione. Così siamo membra gli uni degli altri (Rm 12,5) perché sappiamo compatirci a vicenda, condividendo mediante il circolo della carità fraterna, i mali o i beni che sembrano propri di ogni individuo.

L’amore del prossimo è necessario per nutrire e far crescere l’amore di Dio. Tuttavia, l’amore di Dio è il primo quanto ad origine e dignità. Siamo dunque un solo pane e un solo corpo (1Cor 10,15). . Con questa frase l’apostolo ci indica che la partecipazione all’unico pane e all’unico calice attua in noi l’unità della società fraterna, entro cui viviamo a causa di Cristo e siamo membra gli uni degli altri; essa realizza pure l’unità di Cristo e della Chiesa, in virtù della quale siamo membra di Cristo che è il nostro Capo: in lui noi siamo tutti “uno”.

204

Sabato

 

Dalle “Omelie” di Beda il venerabile.

Hom. 1,16. CCL 122,117-118.

 

Attraverso gli affanni della vita presente, come nell’aridità del deserto, noi aspettiamo di entrare nella patria celeste: così ci fu promesso. Ma nel cammino verso quella mèta, correremmo il rischio di venir meno per la sete e la fame spirituale, se i doni del nostro Salvatore non ci fortificassero e se non ci rinnovassero i sacramenti della sua incarnazione.

Proprio lui è la manna che ci ristora, perché non veniamo meno nel cammino di questa vita; lui stesso è la roccia che ci inebria con i doni spirituali: percossa col legno della croce, fece sgorgare per noi dal suo costato la bevanda di vita; per questo nel vangelo Cristo dice: Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete (Gv 6,35).

Facciamo in modo, fratelli carissimi, che aderendo sempre al baluardo di questa rupe non veniamo scossi dalla fermezza della fede né dallo sgomento per le contrarietà delle cose che passano, né dall’allettamento delle dolcezze.

Al presente, trascurate le delizie temporali, ci affascinino solo i doni celesti del nostro Redentore; fra le avversità di questa vita ci consoli unicamente la speranza della sua visione.

E per meritare di giungere a questa visione, preoccupiamoci di escludere dalla mente e dal corpo ciò che ostacola di giungere ad essa: infatti solo camminando nella rettitudine arriveremo, perché il suo volto puro non è visto che dai puri di cuore.

 

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