La famiglia certosina

 

 

 

Al suo arrivo al deserto di Chartreuse, san Bruno aveva sei compagni; tutti cercavano la solitudine per applicarsi all’intimità con Dio nella vita contemplativa, ma tutti erano ugualmente decisi a rimanere insieme, riuniti attorno a Bruno. 

Così, fin dall’inizio, si trova delineata la formula così tipica della vita certosina: unione di solitari in una piccola comunità.

Questa caratteristica specifica della certosa si è conservata attraverso i secoli e l’Ordine ha sempre avuto la convinzione che questo patrimonio viene da Dio. I certosini sono dei solitari riuniti come fratelli; la comunità che formano è relativamente piccola a ragione della loro stessa vocazione eremitica; così si parla facilmente di «famiglia certosina». L’unità fra i monaci è prima di tutto ed essenzialmente di ordine spirituale: essi sono «riuniti dall'amore del Signore, dalla preghiera e dal desiderio ardente della solitudine». Più profondamente, questa unità è spirituale perché è opera dello Spirito Santo, che «raduna gli amanti della solitudine così da farne una comunione nell'amore».

Tuttavia questa comunione fraterna si esprime anche in maniera visibile e concreta in momenti particolari, principalmente nella liturgia celebrata in comune, ma anche in occasione di incontri come gli spaziamenti e le ricreazioni; allora tutti hanno la gioia di ritrovarsi insieme. Questi incontri regolari permettono ai fratelli di conoscersi meglio e di meglio amarsi, al fine di aver tutti un solo cuore e un’anima sola.  

Conversi e donati  

Tra i primi compagni di Bruno, quattro erano chierici e furono i primi padri; gli altri due erano laici e furono i primi fratelli, chiamati anche conversi. Tutti cercavano l’unione con Dio nella solitudine, ma secondo modalità diverse.

La vocazione di converso, nata a metà del secolo XI tra gli eremiti, fu dapprima concepita come una forma di vita religiosa destinata a proteggere la solitudine di eremiti isolati in celle, ma senza che i fratelli fossero essi stessi solitari. Fu invece diverso all’origine della certosa, alla fine dello stesso secolo: i fratelli proteggevano sì la solitudine dei padri, ma la loro stessa solitudine era a sua volta protetta dal fatto che vivevano all’interno del «deserto». Per più secoli la loro abitazione fu separata da quella dei padri, ma oggi abitano nello stesso monastero.

Ai conversi si è aggiunto con l’andar del tempo un altro gruppo, quello dei donati. All’inizio semplici operai aggregati al monastero e tenuti ad alcune preghiere, i donati diventarono in seguito dei monaci con l’abito e con una vita simile a quella dei conversi. Tuttavia non si vincolano con voti, ma, per amore di Cristo, «si donano» al monastero promettendo di servire Dio di tutto cuore. I donati hanno delle regole proprie, meno rigorose di quelle dei conversi, il che permette di adattarle alle necessità di ciascuno, nel rispetto della propria via personale. Per esempio, non sono tenuti a partecipare all’ufficio notturno.  

Padri e fratelli

Le prime comunità certosine, «come un corpo le cui membra non hanno tutte la medesima funzione», furono dunque formate dall’unione di due elementi distinti, ma complementari e inseparabili.

La vita dei padri e quella dei fratelli sono nettamente differenti. I padri, o monaci del chiostro, vivono nel segreto della cella; essi sono sacerdoti o chiamati a diventarlo. I fratelli, o monaci laici, consacrano pure la loro vita al servizio del Signore nella solitudine, ma con una parte di lavoro manuale più importante di quella dei padri; essi si dedicano alle opere materiali indispensabili per permettere a tutti di vivere l’ideale contemplativo nel deserto; d’altra parte la solitudine dei fratelli è ben reale ma ha un carattere differente dal quella più eremitica dei monaci del chiostro. Ciascuna delle due forme di vita risponde ad una chiamata particolare dello Spirito Santo e ad attitudini diverse, al punto che chi è adatto all’una non sempre lo è per l’altra.

Tuttavia questi due generi di vita non costituiscono delle entità indipendenti, ma sono unite, poiché «padri e fratelli condividono la stessa vocazione»; hanno in comune il medesimo ideale. Gli uni e gli altri, «conformi a Colui che non venne per essere servito ma per servire, manifestano in vario modo le ricchezze della vita totalmente consacrata a Dio nella solitudine».

Se si intende facilmente che i fratelli compiono un servizio riguardo ai padri, è altrettanto vero che questi sono al servizio dei fratelli. Nella famiglia certosina i diversi membri si sostengono a vicenda. «I padri dipendono dai fratelli per poter offrire al Signore una preghiera pura nella quiete e nella solitudine della cella»; senza i fratelli, la vocazione dei padri non potrebbe mantenersi. Parimenti la vocazione solitaria dei fratelli, minacciata dal l’inevitabile contatto con l’esterno, non potrebbe persistere a lungo se non si appoggiasse alla solitudine dei padri e alla loro assistenza spirituale. C’è dunque tra padri e fratelli uno scambio di servizi visibili e invisibili. Ai padri che rischierebbero di isolarsi in una torre d’avorio o di darsi a eccessive speculazioni, i fratelli rammentano il valore spirituale della semplice vita della casa di Nazaret. Ai fratelli che possono essere tentati di lasciarsi prendere troppo dall’azione, i padri ricordano il primario valore dell’amicizia in Cristo della casa di Betania, nel conservare sempre lo sguardo e l’ascolto fissi su di lui.

Ciascuno dei due gruppi assume dei compiti che l’altro non potrebbe intraprendere senza alterare la funzione che ha nell’insieme; ciascuno apporta alla certosa un carattere specifico essenziale, al punto che essa non potrebbe più essere se stessa se uno dei due venisse a mancare. Per questo la vita certosina non si definisce né partendo da quella dei padri né da quella dei fratelli; essa è costituita da questi due generi di vita riuniti.

Questa interdipendenza nella diversità è, per gli uni e per gli altri, un potente stimolo a vivere nella mutua carità e nell’umiltà. D’altronde è questo l’invito che gli Statuti, facendo eco alle parole di S. Paolo, indirizzano ai monaci: «Gareggiando nello stimarsi a vicenda, padri e fratelli vivano nella carità che è il vincolo di perfezione, il fondamento e il culmine di ogni vita consacrata a Dio».