Dal 1193 al 1500 

 

 

 

Per il cambio d'indirizzo monastico dalla regola certosina a quella cistercense, intervennero documenti regi e pontifici. Le lettere «regie e pontificie» attestano la motivazione soprannaturale della mutazione come «per ispirazione di Dio». Benché non si possa negare la perdita di spiritualità solitaria ereditata da San Bruno, non sarebbe giusto, però, tacciare di rilassatezza i monaci di allora. Infatti, dal 1193 comincia un'epoca nuova molto importante per la storia civile e religiosa: il monastero è retto da abati e probabilmente furono subito abati territoriali, dovendo amministrare i casali sorti sui possedimenti ereditati dai certosini.

   

 

 

Si tratta di una specie di diocesi che durerà fino alla Rivoluzione francese, anzi, fino al 1808, perciò protratta anche sotto la giurisdizione ecclesiale e quasi episcopale dei priori certosini succeduti ai Cistercensi nel 1514. Dal 1193 fino al 1411 ressero il monastero, o abbazia nullius, una ventina di abati cistercensi, tra i quali si ricordano Guglielmo, eletto vescovo della diocesi di Squillace; Tommaso, eletto vescovo di Martirano, verso il 1250 e, successivamente, pure vescovo di Squillace; Andrea, eletto nel 1298 vescovo di Mileto, prelato dotto e virtuoso, familiare e cappellano del re Carlo II d'Angiò.

Dopo il passaggio della Certosa dalla regola eremitica certosina a quella cenobitica cistercense, il monastero di Santo Stefano, già residenza dei fratelli conversi, divenne la sede centrale del feudo monastico costituitosi mano a mano intorno a Santa Maria del Bosco, il quale comprendeva i territori di Spadola, Montauro, Gasperina e Bivongi, e i centri agricoli («grance») dei SS. Apostoli a Bivongi, di Sant'Anna a Montauro, di Santa Barbara a Mammola, e vari altri, i cui nomi variano nel corso dei secoli.

   

Mentre il governo dei priori certosini e dei successivi abati cistercensi per i primi due secoli fu svolto con lodevole attenzione, sia al ministero pastorale, sia all'amministrazione dei beni del feudo; purtroppo, in seguito, i feudi monastici e anche il monastero di Santo Stefano con il suo esteso territorio furono colpiti dal flagello dell'epoca, ossia dall'istituzione della commenda. Con ciò le risorse passarono a persone estranee alla vita del monastero, le quali non pensavano che ad arricchirsi con i beni dei monaci, senza provvedere ad essi e ai coloni il necessario per un adeguato sviluppo del feudo.

 

Nel 1411 il Monastero di Santo Stefano passò in commenda a un prelato residente a Napoli, che percepiva le rendite, mentre il convento venne governato da un superiore privato dei beni materiali necessari a una ordinata e proficua amministrazione del feudo, di modo che l'economia languì e ogni attività stagnò, finché nel secolo XV i terreni furono alienati e l'Abbazia di Santo Stefano fu messa a disposizione del Sommo Pontefice.