Pio XI

Costituzione Apostolica Umbratilem

1924

 

 

 

Si deve certo dire che hanno scelto la parte migliore, come Maria di Betania, quei re1igiosi che per professione vivono nascosti e separati dallo strepito e dalle follie del mondo, e consacrano tutte le loro energie alla contemplazione dei divini misteri e dell'eterne verità, innalzando al Signore continue ed insistenti preghiere per l'estensione e la prosperità del suo regno, solleciti di lavare ed espiare con la penitenza spirituale e corporale, prescritta e volontaria, non tanto le colpe proprie, quanto quell'altrui.

Infatti, nessun genere o norma di vita si potrebbe proporre a chi vi sia chiamato più perfetta di questa, mentre l’intima unione con Dio e la santità interiore di quanti vivono nel chiostro, in tanta solitudine e silenzio, contribuiscono mirabilmente a rendere più splendido quel tesoro di santità che la sposa immacolata dì Gesù Cristo offre all'ammirazione ed all'imitazione di tutti.

Nessuna meraviglia quindi, se, volendo gli scrittori ecclesiastici dei secoli scorsi esaltare la preghiera dei solitari e mostrarne l'efficacia, siano giunti a paragonarla all’orazione di Mosè. A tutti è noto l'episodio al quale essi alludono: avendo Giosuè dato battaglia agli Amaleciti nella pianura, Mosè, sulla vetta del monte vicino, pregava con fervore Dio di voler concedere la vittoria al suo popolo; e siccome quand'alzava le mani al cielo vinceva Israele, ed appena le abbassava per la stanchezza, gli Amaleciti prendevano il sopravvento, gli si posero ai lati Aronne ed Hur, e gli sorressero le braccia fino a che Giosuè non uscì vittorioso dal combattimento.

Questo esempio esprime in modo efficace il valore dell’orazione dei contemplativi, che trovano valido appoggio nell’adorabile Sacrificio di Gesù massimamente, e poi nel sacramento della penitenza, raffigurati, in certo modo, in Aronne e Hur. Infatti, come dicemmo, è occupazione abituale e prerogativa di quei solitari l'offrirsi e consacrarsi a Dio come vittime di propiziazione per la salute loro e del prossimo, come rappresentanti ufficiali del genere umano.

Ed ecco perché, fin dai primordi della Chiesa, prese radice e si sviluppò questo genere di vita così perfetto, dal quale tutta la cristianità ricava un vantaggio superiore a ogni immaginazione.

Senza parlare, qui, degli asceti, i quali, fin dagli inizi del cristianesimo, vivevano nelle loro famiglie con tanta austerità che san Cipriano li considerava come “la porzione più illustre del gregge di Dio”. La storia ci narra come molti fedeli d'Egitto, perseguitati dall’imperatore Decio a motivo della loro religione, ripararono in una zona deserta del loro paese, e anche dopo, restituita la pace alla Chiesa, continuarono a praticare la vita eremitica, avendo compreso quanto fosse adatta per giungere alla perfezione; di questi anacoreti poi, che si diceva fossero numerosi quanto gli abitanti delle città, alcuni presero a vivere segregati dal consorzio umano, altri invece, dietro l’esempio di sant'Antonio, si radunarono nelle laure. Così, poco alla volta, sorsero gli Ordini monastici, i quali, governati e diretti da regole particolari, si diffusero ben presto in tutto l'oriente e si stabilirono poi in Italia, nelle Gallie, nell'Africa proconsolare, costruendo dappertutto monasteri.

Questo genere di vita che in forma totale permetteva ai monaci viventi separati ciascuno nel segreto della propria cella d’applicare l’animo in modo esclusivo alla contemplazione delle realtà celesti, esonerati e liberi da qualsiasi impegno di ministero esteriore, si rivelò d’una utilità ammirabile per la società cristiana. Infatti il clero e il popolo di quei tempi non potevano non considerare con la massima utilità l'esempio di questi uomini che, abbracciando per amore di Gesù Cristo le pratiche più perfette e austere, imitavano la vita interiore e nascosta da Lui condotta nella casa di Nazaret, allo Scopo di completare ciò che manca alla sua Passione (cfr. Col 1,24)

Sennonché, con il volgere degli anni, la vita puramente contemplativa divenne più rara, e finì per estinguersi quasi completamente; poiché è vero che i monaci avrebbero dovuto rimanere estranei alla cura d'anime e ai ministeri esteriori, però, in realtà, si diedero invece ad associare alla meditazione e alla contemplazione delle realtà divine gli esercizi della vita attiva, sia che sembrasse loro necessario di venire in aiuto al clero, insufficiente a tanti bisogni - e i vescovi non mancavano d'esortarveli - sia che giudicassero conveniente assumersi l'incarico dell'istruzione popolare promossa da Carlomagno. Si considerino anche i danni recati ai monasteri dalle perturbazioni politiche di quell'epoca, e sarà facile comprendere quanto fosse indispensabile, per rinsanguare la Chiesa, ricondurre all'antico splendore quel genere di vita così santo che per tanti anni aveva prosperato nei cenobi, di modo che mai venissero a mancare anime tutte dedite alla preghiera ed esenti da qualsiasi ministero per supplicare senza tregua la divina misericordia, e attirare sul mondo, così dimentico della propri a santificazione, benefici d'ogni genere.

Ed ecco che Dio, il quale nella sua misericordi a non cessa di provvedere in ogni tempo ai bisogni e agli interessi della Chiesa, scelse Bruno, uomo di gran virtù, perché richiamasse la vita contemplativa allo splendore della primitiva purezza. Bruno, a sua volta, istituì l'Ordine dei certosini, e dopo averlo tutto imbevuto del suo spirito, gli lasciò quelle regole austere le quali, mentre fanno percorrere rapidamente ai suoi religiosi la via della santità interiore, li sottraggono da ogni obbligo di ministero e ufficio esterno, e li tengono applicati con perseveranza e coraggio agli esercizi d'una vita uniformemente rigida e severa. Nessuno ignora poi come i certosini abbiano conservato fedelmente per quasi nove secoli lo spirito del loro fondatore e legislatore senz’aver bisogno, come gli altri Ordini, d’alcuna riforma.

Ora, chi potrebbe non ammirare questi monaci che si sono completamente separati, anzi segregati per tutta la vita dal consorzio umano per poter provvedere alla salute eterna dei loro fratelli mediante un vero apostolato di silenzio e di raccoglimento? Vivono ciascuno nella propria cella, osservando così strettamente la solitudine che non se ne allontanano per nessun motivo, per nessuna necessità, in nessun tempo dell’anno; a ora determinate, di giorno e di notte, si radunano in chiesa, non pere salmodiare come si fa in altri Ordini, ma per cantare con voce viva e rotonda tutto l’intero Ufficio divino senza il soccorso d’alcun strumento e secondo le antichissime melodie gregoriane dei loro codici. Come potrebbe il Dio delle misericordie non esaudire i voti di quelle anime ferventi che lo supplicavano per la Chiesa e per la conversione degli uomini?

Come dunque non mancò a san Bruno la benevolenza del nostro predecessore Urbano II, un tempo discepolo del dottissimo e santissimo uomo della scuola di Reims e che, eletto papa, volle al fianco come consigliere, così l’Ordine certosino, tanto raccomandabile, del resto, per la stessa semplicità e la santa rusticità della sua vita, godette sempre d’uno speciale favore presso la santa Sede. Né minore è l’affetto che noi nutriamo per quest’Ordine così salutare, e il desiderio ch’esso prosperi e si propaghi sempre più. Se infatti vi fu un tempo in cui si sentisse il bisogno d’anacoreti nella Chiesa di Dio, ciò si verifica soprattutto ai nostri giorni, mentre vediamo tanti cristiani, dimenticata totalmente la considerazione delle realtà celesti e deposto perfino ogni pensiero dell’eterna salute, correre sfrenatamente dietro alle ricchezze della terra e ai piaceri del corpo, vivendo in privato e in pubblico come pagani, in opposizione al Vangelo.

Che se c'è ancora chi pensa che certe virtù, ingiustamente chiamate passive, siano ormai da tempo cadute in disuso e si debba sostituire all'antica disciplina monastica l'esercizio più comodo e meno faticoso delle virtù attive, questa teoria però fu respinta e condannata dal nostro predecessore l’immortale Leone XIII, nella sua lettera “Testem benevolentiae” del 22 gennaio l899, e ognuno comprende da sé quanto essa sia dannosa e ingiuriosa al concetto e alla pratica della perfezione cristiana.

Ed invero - e facile comprenderlo - giovano molto più al bene della Chiesa e alla salute del genere umano coloro i .quali si dedicano assiduamente all'orazione e alla penitenza che non quelli che coltivano, lavorando il campo del Signore; se i primi non attirassero dal cielo l'abbondanza delle grazie divine sul terreno che gli operai evangelici devono irrigare, questi trarrebbero dalle loro fatiche frutti ben più magri.

Non c’è bisogno di dire quanto la nostra speranza si riprometta dai certosini, anche perché, osservando essi le costituzioni loro proprie, non solo con sollecitudine e diligenza, ma con tanto generoso slancio dell'anima, è impossibile che non debbano essere e non siano veramente efficaci intercessori presso la misericordia del Signore, a vantaggio del popolo cristiano.

Gli statuti dai quali è retto il loro Ordine parvero degni al nostro predecessore Innocenzo XI di venir muniti del “valido patrocinio della sede apostolica", e furono da lui approvati in forma,specifica con la costituzione “Iniunctum nobis” del 27 marzo 1688, in cui leggiamo un magnifico elogio di quei religiosi, quanto più santa era la vita di quel pontefice. Eg1i non dubitò d'asserire che, come i romani pontefici suoi predecessori avevano riconosciuto nell'Ordine certosino "un eccellente albero piantato dalla destra di Dio nel campo della Chiesa militante, e sempre fecondo di frutti di santificazione" , così egli stesso portava in cuore “quest’Ordine e i suoi membri, che non cessano di servire il Signore nella contemplazione delle sublimi verità divine".

Siccome poi si trattava di conformare i medesimi statuti alle norme del Codice di diritto canonico, si radunarono a capitolo generale i certosini a ciò designati, per studiare e insieme condurre a buon termine la revisione desiderata.

E l’esito fu proprio soddisfacente, poiché vennero abrogati quei punti di regola e quelle consuetudini che, pur lasciando completamente intatta l’essenza dell’Ordine, erano caduti in disuso o non sembravano più adatti ai nostri tempi, e vi s’inserirono invece alcune ordinanze dei precedenti capitoli generali.

Dato a Roma. Presso S. Pietro, l’8 luglio 1924, anno terzo del nostro pontificato.